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Stretto di Messina: sfide concettuali per l’ingegneria italiana

Si torna a parlare del ponte per mettere in campo una sfida importantissima nella progettazione in modo che sia realmente moderna e iconica; questo non prima di ragionare, fin dall’inizio, sul processo di conceptual design del ponte, in ottica sistemica e sostenibile

Stretto di Messina

Una lunga storia

Il sogno dell’attraversamento rapido dello Stretto di Messina nasce con l’Unità d’Italia. Celebre lo studio dell’Ing. Navone il quale, nella sua tesi di Laurea al Politecnico di Torino, ipotizzava un tunnel sottomarino tra Villa San Giovanni e Ganzirri già nel 1870 (Figura 1).

Era l’epoca dei grandi tunnel alpini (la galleria ferroviaria del Frejus fu inaugurata nel 1871) quando la Scuola di Ingegneria di Torino brevettava la perforatrice automatica pneumatica ad aria compressa.

Successivamente, nel XX secolo, i più importanti Ingegneri progettisti strutturali come Albenga, Nervi e Steinman, accantonando l’ipotesi del tunnel, si sono cimentati in molteplici ipotesi realizzative di un ponte ferroviario sullo stretto.

Una tappa significativa fu rappresentata dal Concorso internazionale bandito da ANAS e FS nel 1969, che si concluse con un premio ex aequo a sei progetti concorrenti.

Oltre a una soluzione con tunnel sommersi, si ricordano le due soluzioni di ponte sospeso a campata unica da 3.000 m proposte da Musmeci e Pavlo-Montuori (Figura 2), le soluzioni di ponte sospeso a tre campate di Gervaso-Nicoletti (con campata principale da 1.600 m), la soluzione con ponte strallato di Ceradini-Leonhardt con campata da 100 m e la soluzione mista (stralli/sospensione) proposta dal Prof. Petrangeli con Trevisan (Figura 3).

Le suggestioni, allora avveniristiche, presentate nel Concorso ANAS sono state poi effettivamente riprese in una serie di ponti realizzati successivamente e ancora in esercizio con successo, ma sempre su scale dimensionali nettamente inferiori.

La copertina del lavoro di Carlo Navone
1. La copertina del lavoro di Carlo Navone (1870)

I passi successivi hanno visto la creazione della Società Stretto di Messina SpA, che aveva commissionato la progettazione della soluzione a campata unica vinta dal consorzio Eurolink nel 2011.

Successivamente, il MIMS ha affidato a un gruppo di lavoro lo studio definito “La valutazione di soluzioni alternative per il sistema di attraversamento stabile dello Stretto di Messina”, concluso nell’Aprile 2021. A valle di tale valutazione, il MIMS ha affidato a RFI lo studio di fattibilità e confronto tra le due soluzioni a campata unica e a tre campate, con consegna prevista nel 2024.

L’analisi del gruppo di lavoro ha indicato come, per il sistema con tunnel in alveo, le considerazioni sul rischio sismico appaiano critiche per la presenza di estesi sistemi di faglie attive, non sufficientemente noti, che richiederebbero estese indagini geologiche, oltre all’assenza di riferimenti normativi ed esperienze specifiche.

Il sistema con tunnel in subalveo dovrebbe attraversare lo stretto con una galleria realizzata a 180 m sotto il livello del mare. Per raggiungere una tale profondità, rispettando le Normative sulle pendenze massime, occorrerebbero delle gallerie di raccordo molto lunghe.

Le due soluzioni privilegiate dal gruppo di lavoro sono il ponte a campata unica di 3.300 m, ossia lo schema adottato nel progetto Eurolink, e il ponte a più campate.

Quest’ultimo, ipotizzabile a tre campate con due pile in mare, viene ritenuto una soluzione tecnicamente fattibile, anche grazie agli avanzamenti delle tecnologie di indagine e realizzazione per fondazioni di opere civili marittime a notevoli profondità.

Rispetto al ponte a campata unica, il ponte a più campate potrebbe avere una maggiore estensione complessiva e mantenere al tempo stesso la lunghezza della campata massima simile a quelle già realizzate altrove e, quindi, usufruire di esperienze consolidate, anche dal punto di vista di tempi, costi di realizzazione e oneri di manutenzione.

Il conceptual design del ponte: alcuni input progettuali 

La progettazione concettuale

Come ben ricordato da Boller e Gozzi (Ontologia della Costruzione, Archi 2022), “… il termine progettare deriva dal Latino “proiectare” e significa proiettare, gettare in avanti, avere quindi una visione del futuro ovvero, nel caso specifico, dell’opera costruita.

Concepire, dal Latino “concipere”, significa d’altro canto accogliere in sé il germe di una nuova vita. In ambito scientifico, si intende più propriamente accogliere nell’intelletto, nella coscienza, quindi comprendere, mettere a fuoco una nuova idea.

Concepire una costruzione equivale pertanto a pensarla nella sua essenza, spoglia di tutti gli artifici formali e al contempo inclusiva di tutte le sue declinazioni…”.

Impalcato di Musmeci-Quaroni
2. Prospetto e impalcato nella proposta di Musmeci-Quaroni

Mai come nel caso del ponte sullo stretto di Messina ci pare importante definire, quasi ontologicamente, alcuni aspetti fondamentali del processo progettuale.

La dizione anglosassone “conceptual design” sottintende un processo sinergico di ricerca, ideazione, creatività e verifica che prenda in considerazione sia l’idea formale del manufatto, sia la comprensione strutturale dello stesso, nonché lo studio delle metodologie e delle tecniche per realizzarlo e, non ultima oggi, la definizione delle tecnologie di manutenzione, gestione, controllo durante la vita in esercizio dell’opera con attenzione alla sostenibilità economica e ambientale.

In ottica di conceptual design strutturale, la soluzione del ponte sospeso – tanto a campata unica che a campata tripla con pile in mare – una volta riportata su carta geografica e con le dimensioni di lunghezza delle campate (oltre 3.000 m) e larghezza d’impalcato reali mostra immediatamente la grande snellezza dell’opera la quale, da un punto di vista delle sole proporzioni, significativamente non è dissimile da una passerella ciclopedonale.

Tale similitudine ci porta a evidenziare le seguenti fondamentali circostanze:

  • per un’opera siffatta, l’architettura compositiva coincide in maniera pressoché totale con la struttura portante e pertanto la scelta strutturale definisce in modo assoluto l’inserimento nel paesaggio e le interconnessioni con la viabilità terrestre;
  • il vero fattore dimensionante della struttura è rappresentato, più che dalle resistenze dei materiali, dalla sua intrinseca deformabilità, con le connesse implicazioni quali l’interazione con il treno viaggiante, le amplificazioni dinamiche sotto carico mobile e la sensibilità alle azioni aerodinamiche del vento;
  • le verifiche allo Stato Limite di Esercizio (SLE) sono probabilmente più limitanti di quelle allo Stato Limite Ultimo (SLU).

Nel seguito si vogliono introdurre sinteticamente alcuni input per una progettazione strutturale non standard, quale dovrà essere quella del ponte sullo Stretto, evidenziando alcune suggestive possibilità da esplorare nell’ottica di un conceptual design olistico. 

La proposta di Petrangeli
3. La proposta di Petrangeli (Gruppo Technital)
La minimizzazione della deformabilità

Le considerazioni sulla deformabilità indirizzerebbero la scelta progettuale su una tipologia di impalcato strallato anziché sospeso, dal momento che nel ponte strallato l’impalcato è parte integrante del sistema portante e conferisce maggiore rigidità globale rispetto allo schema sospeso.

Tuttavia, l’adozione di un sistema strallato per tali luci comporterebbe un’altezza delle pile ben maggiore che nel caso sospeso e l’insorgenza di possibili anomalie tensionali negli stralli che rischierebbero di andare in bando sotto carichi mobili. Inoltre, ad oggi, risultano costruiti o in fase di realizzazione ponti strallati con campate massime dell’ordine dei 1.200 m mentre nel caso dei ponti sospesi ci sono già realizzazioni con campata principale superiore ai 2.000 m.

Un aspetto che potrebbe essere utilmente indagato nella progettazione concettuale del ponte, al fine della riduzione della deformabilità globale, è l’utilizzo della terza dimensione (orizzontale, ortogonale alla luce) per la stabilizzazione trasversale dell’impalcato.

L’inclinazione fuori dal piano principale delle antenne, dei cavi portanti o degli stralli è una delle soluzioni perseguibili: gli elementi di sospensione dell’impalcato, oltre alle componenti di forza per il sostegno verticale, fornirebbero una componente orizzontale di forza, trasversale all’impalcato, con effetto diretto sulla stabilità orizzontale statica e soprattutto dinamica.

Tale soluzione, significativamente, era già in nuce nella proposta del 1969 di Musmeci (Figura 2) e nel progetto del gruppo Samonà collocatosi tra i secondi classificati.

Un’altra strada per minimizzare la deformabilità potrà essere quella di utilizzare materiali leggeri ad alta rigidezza e altissima resistenza (per esempio, kevlar, fibre di carbonio ecc…) ove il basso peso specifico permetterebbe di realizzare elementi strutturali (in primis, cavi e tiranti, ma anche travi e piastre) ad altissime prestazioni senza appesantire le masse e inficiare le caratteristiche di affidabilità e tenacità dell’elemento.

Gli effetti di scala e le fragilità alle grandi dimensioni

La Meccanica della Frattura insegna che, all’aumentare delle dimensioni di una struttura e fissato il materiale costituente, aumenta la fragilità del manufatto per una serie di motivazioni fisiche incontrovertibili.

Una prima motivazione, evidenziata dalle teorie statistiche della Meccanica della Frattura quale la teoria del weakest link di Weibull, presuppone che la probabilità di presenza di un difetto di dimensione critica all’interno di una struttura resistente aumenta con l’aumentare delle dimensioni della struttura stessa.

Un’altra motivazione è legata indissolubilmente al “duello” tra i meccanismi di propagazione delle fratture (spinti dall’energia elastica accumulata nella struttura, che è proporzionale al volume) e i meccanismi resistenti contro la propagazione (che invece dipendono dall’energia di frattura dissipabile, proporzionale all’area delle fratture).

Al crescere delle dimensioni strutturali quindi, lo squilibrio tra l’energia di rilascio disponibile e l’energia “resistente” aumenta (L3/L2) e parallelamente aumenta la probabilità di occorrenza del difetto critico.

Tale circostanza era stata qualitativamente evidenziata già da Galileo nei “Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze” (1638) con la celebre raffigurazione dell’infragilimento (e intozzimento) delle ossa dei vertebrati al crescere delle dimensioni dell’animale (Figura 4).

L’effetto scala di G. Galilei
4. La rappresentazione intuitiva dell’effetto scala di G. Galilei (1638)

L’ingegneria industriale moderna ha imparato, a sue spese, quanto l’effetto scala possa essere pericoloso. Celebri i collassi fragili delle navi Liberty e degli aerei Comet de Havilland, così come le rotture, apparentemente inspiegabili, di macchinari e pezzi meccanici avvenute sotto livelli tensionali abbondantemente al di sotto dei limiti tradizionali di resistenza.

Nel campo dell’ingegneria civile, gli effetti di scala ancor oggi restano ai margini delle Normative strutturali e delle pratiche progettuali, nonostante vari accadimenti ne abbiano testimoniato il ruolo a volte decisivo.

Tale è il caso di alcuni crolli di dighe e del rovinoso collasso progressivo delle Torri Gemelle. Singolarmente, anche la recente rottura fragile del tirante in c.a.p. del viadotto sul Polcevera (il cosiddetto ponte Morandi), costituito da 464 trefoli, ciascuno realizzato con sette fili di acciaio intrecciati e in parte corrosi e inefficaci, si è verificata in presenza di uno stato tensionale apparentemente non critico – secondo le teorie standard della resistenza dei materiali – sui trefoli sani.

Considerando le enormi dimensioni presunte dei principali componenti del ponte sullo stretto di Messina (cavo principale di sospensione, tiranti, piloni verticali, fondazioni, ecc…), risulta evidente quanto importanti saranno tanto le valutazioni progettuali sulla fragilità dei singoli componenti, quanto l’attenzione in fase esecutiva nei confronti dei possibili difetti e vizi all’interno dei componenti stessi (ancora nel caso del ponte Morandi, l’esistenza acclarata di un vizio occulto nello strallo ha rappresentato senza dubbio un intensificatore di sforzo non agevolmente individuabile né valutabile). 

Robustezza e cigni neri

Anche per quanto sopra argomentato in merito agli effetti di scala, per un’opera di importanza strategica (e costo rilevante) come il ponte sullo stretto, si deve senz’altro pretendere una progettazione svolta con criteri innovativi anche dal punto di vista del rischio associato agli eventi inattesi e imprevedibili (i cosiddetti cigni neri, ossia gli eventi la cui esistenza non è nota prima del loro verificarsi).

La proprietà di una struttura di essere resiliente rispetto a tali eventi non previsti in fase di progettazione è oggi definita robustezza. Essa indica la capacità della struttura di assorbire eventi di danno locale a piccola scala senza propagarli alla scala globale con conseguenze di collasso catastrofico (Figura 5).

Purtroppo, la Normativa vigente non fornisce indicazioni in merito alla robustezza, limitandosi, al punto 2.2.5 delle NTC 2018, a indicare solo qualitativamente le strategie di progettazione da utilizzarsi per perseguire un adeguato livello di robustezza.

In Italia l’unico riferimento in materia è rappresentato dalle CNRDT 214/2018, “Istruzioni per la valutazione della robustezza delle costruzioni” che mirano a fornire al Progettista i fondamenti concettuali dell’analisi di robustezza, da prendere in carico già nelle fasi iniziali della progettazione strutturale.

Per affrontare tali situazioni, esiste oggi la “progettazione basata sulle conseguenze” (in Inglese consequence-based design, CBD) che ribalta il canonico paradigma progettuale basato sul confronto semi-probabilistico tra capacità strutturale C (resistenze) e domanda D (azioni e carichi) che permea le Norme tecniche per le costruzioni.

In accordo al CBD, il dimensionamento delle membrature di una struttura resistente, infatti, non è effettuato mediante la semplice verifica che C > D, ma tenendo conto anche dell’importanza dell’elemento nei confronti di un suo eventuale default, ossia valutando le conseguenze del default.

Sempre seguendo la medesima filosofia di perseguimento della robustezza globale, l’assemblaggio delle membrature viene progettato non soltanto considerandole tutte integre nel processo di trasferimento interno dei carichi, ma valutando i possibili percorsi alternativi di carico (alternate load path method) in caso di default di uno o più elementi o, all’opposto, inserendo opportune compartimentazioni strutturali per confinare gli eventi inattesi.

Dal punto di vista strutturale, le principali strade che la Scienza delle Costruzioni insegna sono, per la prima strategia, la ridondanza strutturale e il potenziamento dei meccanismi di redistribuzione nei nodi, per la seconda strategia l’inserimento di fusibili strutturali (crack arrester) capaci di interrompere rotture e collassi alla scala locale senza propagarli a livello globale.

Controllo attivo, sicurezza e analisi di rischio

Com’è noto, il concetto di rischio deriva dalla combinazione di tre parametri, tra loro indipendenti, che sono la pericolosità, la vulnerabilità e l’esposizione.

La pericolosità esprime la probabilità che in una certa zona si verifichi un evento di una determinata intensità entro un determinato periodo di tempo (ad esempio, il “tempo di ritorno” di un terremoto). La vulnerabilità indica l’attitudine di una determinata “componente” (edificio, infrastruttura, ecc.) a sopportare gli effetti in funzione dell’intensità dell’evento.

La vulnerabilità esprime il grado di danneggiamento di un elemento o di una serie di elementi risultante dal verificarsi di un fenomeno di una certa intensità. L’esposizione indica l’importanza della struttura o dell’oggetto che deve sopportare l’evento e può essere espressa dal valore economico del bene a rischio, o dal numero di presenze umane e dal valore delle risorse naturali, ambientali ed economiche esposte a un determinato pericolo.

Ricordando che il rischio nullo, per definizione, non esiste, la progettazione strutturale di una infrastruttura quale il ponte sullo stretto dovrà basarsi sulle procedure di calcolo più avanzate, facendo uso delle più raffinate modellazioni numeriche delle azioni e dei materiali, in maniera da restringere per quanto possibile l’aleatorietà dei risultati.

Il concetto di robustezza strutturale
5. La schematizzazione del concetto di robustezza strutturale

Al contempo, la fase di realizzazione del ponte dovrà anche essere utilizzata per la verifica, nel corso dei lavori, della bontà delle ipotesi e dei risultati della progettazione costituendo, nelle fasi di direzione lavori e collaudo, un ruolo interattivo con la progettazione stessa che potrebbe dover essere aggiornata, per alcuni aspetti, alla luce di risposte in corso d’opera non previste inizialmente.

Il ponte sullo stretto, quindi, sia durante la costruzione sia soprattutto durante le fasi di esercizio, dovrà essere monitorato con le più moderne tecnologie di sensoristica, adottando un sistema di controllo attivo che fornisca al gestore il monitoraggio continuo della struttura rispetto al suo modello di calcolo (digital twin).

Si potranno utilizzare i carichi mobili per valutare la tipologia, la localizzazione e l’intensità dell’eventuale degrado strutturale partendo dalla misura di grandezze ingegneristiche dirette.

Esso potrà essere combinato con il monitoraggio dinamico per ottenere la massima capacità predittiva oggi possibile soprattutto nei confronti dei potential failure modes strutturali ma anche nei confronti dei componenti non strutturali degradabili, in ottica di manutenzione predittiva e gestione dell’infrastruttura.

Nel contesto delle moderne analisi di rischio, è bene qui ricordare come il monitoraggio, ontologicamente, non modifichi direttamente nessuno dei parametri che definiscono il rischio. Certamente esso migliora la conoscenza del rischio, affinando la stima del valore di vulnerabilità (per esempio, monitoraggio della difettologia) e a volte la stima della pericolosità (per esempio, monitoraggio del traffico).

In ottica probabilistica esso pertanto riduce le incertezze e quindi si può interpretare come un miglioramento del controllo del rischio, ma non del suo valore intrinseco. Pertanto, il ponte sullo stretto dovrà essere validato da analisi di rischio globali basate su protocolli avanzati quali le metodologie swiss cheese e le metodologie bow tie (Figure 6A e 6B).

Le prime, basate sul concetto di barriere perforabili, portano a concepire sistemi di sicurezza basati su strategie seriali di protezione. Le seconde invece puntano a minimizzare le conseguenze dei rischi, distinguendo le misure di mitigazione reattive da quelle proattive.

Vita nominale e manutenzione predittiva

Ai sensi delle NTC2018, la Vita Nominale di Progetto VN di un’opera è convenzionalmente definita come: “… il numero di anni nel quale è previsto che l’opera, purché soggetta alla necessaria manutenzione, mantenga specifici livelli prestazionali…”.

I tre livelli di prestazione sono associati a valori minimi della Vita Nominale dell’opera, convenzionalmente pari, per le strutture ordinarie, a 10, 50 e 100 anni. La durata dell’opera è un parametro convenzionale, assunto in sede di progetto, cui debbono essere riferite le verifiche dei fenomeni dipendenti dal tempo, quali la durabilità, la fatica e l’azione sismica, mediante il corretto dimensionamento dei particolari costruttivi.

In un’opera come il ponte sullo stretto è evidentemente auspicabile l’assunzione progettuale (e la successiva realizzazione conforme) di un valore di VN superiore, per esempio pari a 200 o 300 anni.

Ciò non è tanto legato alla effettiva previsione di esercizio del ponte (il cui utilizzo futuro, in un intervallo così esteso, è difficilmente prevedibile alla luce dell’evoluzione tecnologica e pure delle trasformazioni socio-economiche), bensì l’adozione di valori della Vita Nominale di Progetto superiore ai minimi indicati dalle Norme condurrà al dimensionamento di dettagli costruttivi più durevoli e a una struttura dotata di maggiore capacità e robustezza (anche nei confronti delle azioni sismiche che, com’è noto, dipendono dalla VN) con livelli di incidenza del degrado minori durante l’esercizio e, quindi, costi inferiori per le riparazioni dei danni.

In ogni caso, la valutazione dell’invecchiamento della struttura, ossia la previsione del momento in cui essa raggiungerà livelli di affidabilità insufficienti per l’esercizio e se ne renda quindi necessaria la dismissione, esce quasi sempre dalle capacità di previsione progettuale. Attraverso successive opere di manutenzione evolutiva il livello di affidabilità della struttura, funzione decrescente nel tempo per effetto del degrado dei materiali, potrà essere ripristinato a valori che possono anche risultare confrontabili con gli originari.

Nel caso del ponte sullo stretto il Piano di Manutenzione non dovrà essere impostato secondo la classica filosofia della Remedial Maintenance (run to failure), secondo la quale la manutenzione (per esempio, sostituzione o retrofitting di un componente) viene effettuata dopo la rottura o la perdita di funzionalità del componente.

Si ritiene opportuno invece predisporre un Piano di Manutenzione evolutiva basato sulle strategie della Predictive Maintenance, secondo le quali la manutenzione (per esempio, sostituzione di un componente) viene effettuata su un componente ancora funzionante ma che potrebbe cedere presto.

La Manutenzione Predittiva presuppone la conoscenza accurata della Vita Nominale dei singoli componenti e potrà declinarsi secondo due strategie differenti, anche co-esistenti:

  • time-based maintenance: le componenti critiche vengono rimpiazzate dopo un periodo di tempo stabilito a priori, indipendentemente dallo stato della componente. È la tipica strategia dell’industria automobilistica e aeronautica;
  • condition-based maintenance: le componenti strutturali vengono rimpiazzate in base alla loro condizione. In questo caso dev’esserci un sistema di controllo che consenta di monitorare la struttura e le singole componenti, anche mediante tecniche di Artificial Intelligence.

Un aspetto importante da tenere a mente in un processo di conceptual design orientato anche alla manutenibilità è la valutazione ex-ante del posizionamento e dell’accessibilità dei singoli componenti manutenibili.

Sarà pertanto fondamentale integrare sin dalle prime fasi di concept le strategie del design for maintenance, secondo le quali i criteri di modularità, accessibilità e sostituibilità diventano fondamentali.

Verso un concept design sistemico e multifunzionale

La Natura insegna come gli organismi viventi posseggano sistemi di sostegno strutturale la cui concezione è sempre multifunzionale e “sostenibile”. Tali parametri sono tra quelli fondamentali nella moderna teoria del systemic design.

La multifunzionalità è agevolmente riscontrabile, per esempio, nelle ossa dei vertebrati ove la funzione portante strutturale è accompagnata da altre funzioni, come quelle esercitate dal midollo contenuto nel canale diafisario delle ossa lunghe e nelle cavità del tessuto spugnoso delle ossa piatte.

Il midollo è l’organo dedicato alla sintesi degli elementi principali del sangue, ossia dei linfociti, dei globuli rossi e delle piastrine. Un’altra funzione tipica delle ossa è quella protettiva nei confronti di organi essenziali, si pensi alle ossa del cranio e alle costole nel torace. Ancora, le ossa fungono da riserva e deposito di minerali come calcio, fosforo, sodio e magnesio, indispensabili per regolare molti meccanismi fisiologici negli esseri viventi.

Anche nei vegetali la struttura portante lignea assolve non soltanto alla primaria funzione portante ma garantisce il trasporto delle sostanze nutritive, recuperandole dalle radici (che pure fanno da fondazione stabilizzante per l’albero) e distribuendole in tutto il sistema, fino alla chioma.

Con riferimento alla sostenibilità delle strutture viventi, è ben noto come gli organismi ottimizzino il consumo di energia per creare le proprie strutture portanti, evitando sprechi di risorse (acquisibili tramite l’alimentazione) e autolimitando la crescita.

  • Metodo Swiss Cheese
    6A Metodo Swiss Cheese
    6A. Le immagini schematiche del metodo Swiss Cheese
  • Metodo Bow-tie
    6B Metodo Bow-tie
    6B. Le immagini schematiche del metodo Bow-tie

Il celebre saggio “On growth and form” di D’Arcy Thompson (1917) e molteplici successivi studi nel campo della biologia e delle scienze naturali hanno evidenziato come, per esempio, gli alberi codificano nel proprio genoma un limite alla propria crescita definito sia sulla base delle caratteristiche meccaniche del materiale ligneo che in considerazione dell’equilibrio tra il reperimento e il consumo delle sostanze nutritive del sottosuolo, tenendo conto anche della disponibilità di acqua e di illuminazione naturale.

Allo stesso modo, la lumaca smette di far crescere il proprio guscio nel momento in cui l’incremento dell’esigenza nutritiva necessario per un’ulteriore crescita dimensionale diventa insostenibile.

Una sfida importantissima nella progettazione di un’opera che voglia essere realmente moderna, sostenibile e iconica sarà pertanto quella di ragionare, fin dall’inizio del processo di conceptual design del ponte, in ottica sistemica e sostenibile.

Per tutto il periodo di esercizio del ponte, ad esempio, lo stesso dovrà essere capace di garantire con adeguato franco rispetto al livello del mare il passaggio nello stretto di navi di grande altezza oggi non ancora circolanti (per esempio, porta-container, navi da crociera, navi per stoccaggio di gas, ecc..).

Nell’ambito di una moderna analisi costi/benefici, la scelta efficace dei materiali strutturali e non strutturali, degli approvvigionamenti e delle tecniche costruttive dovrà essere accompagnata da uno studio dell’intero ciclo di vita dell’opera, inserendo in tale valutazione non soltanto le fasi di costruzione, esercizio e manutenzione, ma anche la probabile fase di demolizione/smontaggio al termine della vita dell’opera.

Inoltre, dovrebbe essere perseguito il design multifunzionale del ponte, per esempio considerando la possibilità di utilizzare le enormi pile per l’accumulo inerziale di energia termica (per esempio tramite irraggiamento delle masse esposte e tramite pali geotermici di fondazione), per il supporto di sistemi di generazione di energia eolica o persino per lo sfruttamento energetico delle possenti correnti dello stretto.

Anche le strutture flessibili dell’impalcato potrebbero utilmente essere sfruttate mediante tecnologie di energy harvesting legate alle vibrazioni (derivanti dal traffico viaggiante e dal vento). Il ponte dovrà poi essere nativamente concepito come adattabile alle nuove tecnologie per la mobilità sostenibile.

La preconizzata diffusione dei mezzi a trazione elettrica richiederà soluzioni di ricarica in continuo “on the road” così come l’avvento della mobilità a idrogeno comporterà allestimenti strutturali e non strutturali resilienti nei confronti di eventi accidentali ed esplosioni.

Lo sviluppo della cosiddetta CCAM (Connected, Cooperative and Automated Mobility) implicherà la presenza, sul ponte, della rete di controllo e guida dei veicoli autonomi, da integrare nell’infrastruttura ferroviaria in maniera nativa e sinergica.

Dal punto di vista architettonico, infine, un’opera di tale portata e unica al mondo dovrà garantire la fruibilità di percorsi ciclabili e pedonali, di piattaforme di sosta e osservazione per i visitatori, aggiungendo importanti vincoli progettuali al concept dell’infrastruttura.

Insieme ad altri aspetti solo apparentemente decorativi e secondari, quali l’illuminazione e la colorazione dell’opera in una zona ad alta valenza naturalistica, tali input progettuali non potranno essere demandati a una fase successiva del processo di design ma dovranno essere presi in conto fin dai primi “schizzi” su carta tracciati dai fortunati artefici di tale appassionante sfida.

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