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Project financing all’italiana, il 71% di quelli realizzati è fuori dalle regole Ue

Oltre due terzi dei project financing "freddi" avviati negli ultimi dieci anni in Italia erano "fasulli", contrari cioè alle regole europee (Eurostat) sui requisiti necessari per classificare effettivamente fuori bilancio un'opera pubblica finanziata in tutto o in parte con capitali privati.

Il dato emerge, senza enfasi e tra le righe, dal rapporto «A focus on PPPs in Italy» preparato dalla Ragioneria generale dello Stato (ministero Economia), presentato nel corso del Meeting Ocse (Parigi, 23-24 marzo) e messo on line sul sito del Mef nei giorni scorsi.

La "scoperta" è però dell'Istat, che ha messo sotto osservazione 24 operazioni di Ppp "freddi" (dove cioè la remunerazione per il privato è data da canoni pagati dalla pubblica amministrazione) per un investimento di 4 miliardi di euro: ebbene, per 17 casi su 24, pari al 71%, per un valore di 3,5 miliardi su 4 (87%), i privati non rischiavano nulla (o quasi), e dunque non si trattava di un vero project financing ma di un "appalto mascherato".

Questo significa che nella maggior parte di questi casi il Ppp non è stata la scelta migliore per Comuni e Asl, e dunque ora devono sopportare costi maggiori. Significa inoltre che questi investimenti devono essere riclassificati, bisogna cioè inserire le spese – negli anni in cui sono state effettuate – nel conto economico delle pubbliche amministrazioni (l'impatto sui conti pubblici è però limitato, perché spalmato negli anni e riferito al passato).

Significa infine – lo dice molto chiaramente lo studio del Mef – che il governo centrale deve rafforzare le strutture tecniche di supporto alle PA periferiche, e che va resa obbligatoria un'analisi costi-benefici prima di lanciare queste operazioni, in modo che i Ppp siano lanciati solo in caso di vantaggio "dimostrato" per la PA.

Facciamo un passo indietro. In base alle regole Eurostat 2004 (aggiornate nel Manuale Sec 2010) i partenariati pubblico-privati sono davvero tali, e dunque il costo di investimento può essere classificato "fuori bilancio", senza impatto sui conti pubblici (e sui Patti di Stabilità) di Stati ed enti locali, solo se c'è un vero trasferimento ai concessionari privati di almeno due dei tre seguenti rischi: 1) costruzione; 2) mercato (introiti da tariffe o pedaggi); 3) disponibilità (canoni variabili pagati dalla PA in base a parametri di qualità).

Ebbene, dal 2010 al 2014 l'Istat ha condotto un complesso e paziente lavoro di verifica (su gare, contratti, canoni) su 24 progetti di Ppp italiani di dimensione media, per un valore totale di 4 miliardi di euro di investimento, scelti tra le categorie più a rischio, e cioè i Pf freddi.

Dall'analisi Istat emerge che nel 71% dei casi (e per l'87% dell'importo) i progetti sono stati riclassificati "on balance", cioè nel bilancio pubblico. Non c'è stato vero trasferimento dei rischi, vale a dire che canoni fissi, garanzie, clausole contrattuali e "paracadute" vari proteggono di fatto i privati da ogni vero rischio. Questo significa che probabilmente affidare queste operazioni ai privati, con alti costi finanziari e con servizi pluriennali a un soggetto unico non è stato affatto un buon affare per Comuni, Regioni, Asl.

Anche la nuova direttiva europea sulle concessioni 23/2014, che deve essere recepita entro il 18 aprile 2016, costringe l'Italia a una gestione meno "leggera" dei project financing: se non ci sarà trasferimento effettivo del rischio operativo ai privati, infatti, e per un'entità non trascurabile, le opere non si potranno fare in concessione. Serve dunque più competenza, più linee e guida a contratti standard nazionali, più scrematura ex ante per evitare operazioni che non camminano o svantaggiose per le casse pubbliche. Il dibattito è aperto: affidare questi compiti a Palazzo Chigi, al Mef, all'Anac, alle Infrastrutture, a una nuova Agenzia? La soluzione sarà probabilmente solo nel Dlgs di attuazione della delega di riforma degli appalti (e recepimento della direttiva).