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La grande «gelata» dell’economia mondiale

Se nel 1956 Renato Carosone cantava «Tu vuò fà l’americano», esattamente 60 anni più tardi sembrerebbe quasi che siano gli americani a voler fare gli europei. La vivace e brillante economia statunitense si sta infatti europeizzando un po’ troppo. Nei primi due trimestri dell’anno gli Stati Uniti hanno generato una crescita economica inferiore a quella dell’Area euro: +0,2% e +0,3% sui trimestri precedenti, rispetto al +0,6% e +0,3% europeo. È vero che Oltreoceano la disoccupazione è stata praticamente sconfitta. È vero che le stime sulla crescita Usa per il 2016 sono più elevate rispetto a quelle del vecchio continente. E che due trimestri significano poco. Ma questi numeri dimostrano comunque un fatto: il virus della stagnazione o della crescita anemica sta infettando tutti. Anche i cavalli migliori. Lo dimostra il fatto che fino al 2010 il Pil mondiale cresceva intorno al 5% l’anno, mentre da anni galleggia ormai poco sopra il 3%. E lo confermano tutti gli ultimi indicatori anticipatori, a partire dall’indice Ism uscito ieri negli Stati Uniti.

Dopo quasi un decennio dall’inizio della crisi, andato interamente perso per alcuni Paesi come l’Italia, viene dunque da chiedersi se l’economia globale non si stia davvero avviando verso una «stagnazione secolare» come profetizzato dall’ex segretario al Tesoro Usa Larry Summers nel 2013. Viene da domandarsi come mai lo sforzo immane delle banche centrali (la sola Bank of Japan ha stampato moneta per un ammontare pari al 60% del Pil nipponico) abbia partorito un topolino. Viene da interrogarsi su quanta di questa bassa crescita economica sia strutturale, cioè dovuta a fattori permanenti, o momentanea. Solo l’invecchiamento della popolazione, le diseguaglianze e l’eccesso di debito pubblico – secondo Robert Gordon del Cepr – ridurranno la crescita economica globale dal 2% medio annuo registrato tra il 1891 e il 2007, allo 0,9% fino al 2032. Ma ci sono anche molti altri fattori su cui i Governi possono intervenire più facilmente. O dovrebbero farlo. Andando ben oltre le parole vuote dei vari G20.

I fattori congiunturali

A ben guardare uno dei freni della crescita economica è stato messo in azione proprio dai Governi, che – chi più chi meno – hanno ristretto negli ultimi anni la politica fiscale. Questo significa più tasse e/o meno spese. «La prima voce che i Governi hanno tagliato è quella relativa agli investimenti – osserva Luca Mezzomo, economista di Intesa Sanpaolo -. Perché tagliare questa voce di bilancio è politicamente più facile che altre. L’ha fatto anche la Germania, che non ne avrebbe avuto bisogno». Così dal massimo del 2009, nell’area euro gli investimenti pubblici sono calati del 13%, con picchi di -62% per il Portogallo o di -58% per la Spagna. Se le banche centrali remano da una parte, insomma, i Governi continuano a remare da quella opposta. In Europa, ma non solo.

Anche sul fronte dei commerci, il comportamento dei Governi o dei vari attori economici sta remando contro la crescita. «Molti Paesi tendono a chiudersi in un crescente protezionismo», osserva Antonio Cesarano, capo economista di Mps Capital Services. Questo sta letteralmente «gelando» il commercio mondiale: secondo i dati del CPB World Trade Indexes, le esportazioni mondiali nel 2015 e nel 2016 sono crescite di appena l’1,1%, contro il 5,7% medio annuo dei 5 anni precedenti. Sommando a tutto questo le continue restrizioni a cui vengono costrette le banche da regolamentazioni sempre più ferree, la crescente incertezza politica (le imprese non investono in un clima incerto) e la sempre più scarsa efficacia degli stimoli monetari, è abbastanza comprensibile perché l’economia non cresca: le aziende investono poco, le famiglie consumano poco, gli Stati incentivano poco. Questo, in maniera varia, accade in molte parti del mondo.

I fattori strutturali

Ma se anche tutti questi fattori venissero rimossi, ne resterebbero altri a frenare l’economia mondiale. Tanto che molti economisti ritengono che la stagnazione sia destinata a restare «secolare». Pensiamo solo al fattore demografico: più la popolazione invecchia, più calano i consumi e aumentano le spese sanitarie e previdenziali. Dunque l’economia cresce meno. Il problema è in aumento in tutto il mondo. Se ora i Paesi catalogabili come «super-vecchi» sono nel mondo solo 3 (Italia, Giappone e Germania), nel 2020 secondo le stime fatte da Moody’s diventeranno 13. Tra questi si conteranno molti Stati europei, come Olanda, Francia, Gran Bretagna, Svezia, Slovenia, Croazia e Portogallo. Nei prossimi 15 anni la popolazione mondiale in età lavorativa sarà dunque la metà rispetto a quella dei 15 anni passati: questo – calcola Moody’s – ridurrà la crescita economica globale dello 0,4% tra il 2015 e il 2020 e dello 0,9% tra il 2020 e il 2025.

Per di più la popolazione in età lavorativa è sempre più precaria, meno pagata e flagellata dalla disoccupazione. E anche questo fenomeno rischia di essere sempre più strutturale: stima Morgan Stanley che la robotizzazione e la digitalizzazione dell’economia presto faranno sparire molti posti di lavoro, creandone in cambio molti meno. Chi lavora all’ufficio crediti – secondo Morgan Stanley – ha il 98% delle probabilità di vedere il suo ruolo sostituito da un computer nei prossimi due decenni, i receptionisti hanno un rischio del 96%, gli assistenti legali del 94%. E così via. Questo potrebbe ridurre i posti di lavoro e anche gli stipendi medi. Del resto il fenomeno già si vede: anche negli Usa, dove il tasso di disoccupazione è molto basso, solo il 62,8% della popolazione partecipa al mercato del lavoro. Questo significa che il 37,2% degli americani non cerca neppure un impiego. Un effetto negativo sulla crescita lo producono inoltre le crescenti diseguaglianze tra ricchi e poveri, perché riducono la capacità di spendere di fette sempre più grandi della popolazione mondiale.

Lo sforzo comune

Ecco perché servono sforzi comuni per rimettere in moto l’economia mondiale: perché gli elementi che remano contro sono tanti. Globali. Molti dei quali (come la demografia) non sono risolvibili. Secondo alcuni servirebbe per esempio un grande sforzo pubblico e privato a livello globale per rilanciare le infrastrutture: calcola McKinsey che da qui al 2030 nel mondo serviranno 57mila miliardi di dollari di investimenti in infrastrutture (a partire dall’acqua per arrivare alle energie rinnovabili). Da soli i Governi non ce la possono fare, per cui bisogna trovare il modo di coinvolgere sempre più gli investitori privati. Anche di questo si discute da tempo al G20. Ma soprattutto servirebbe più unione e meno protezionismo. Politiche più coordinate, programmazioni più lungimiranti. Le sfide sono epocali: non esistono ricette facili, serve un cambio radicale di paradigma.