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Globalizzazione 2.0: un nuovo approccio al commercio globale

(Come riportato da MANHATTAN ASSOCIATES)

Negli ultimi due anni il mondo sembra essere entrato in una nuova epoca di grande e costante instabilità, con profonde ripercussioni sul commercio internazionale e sui consumatori. Tutti questi disordini hanno portato molti a chiedersi: è questa la fine della globalizzazione e del capitalismo come lo conosciamo?

Lo scorso marzo, il Chief di BlackRock, la più grande società al mondo di fund management, ha annunciato in una lettera agli azionisti che era “la fine della globalizzazione che abbiamo conosciuto negli ultimi tre decenni”. Il motivo di questo messaggio è stato il conflitto in Ucraina, che ha improvvisamente sconvolto l’ordine mondiale che durava dagli anni ’90 e, con esso, molti dei legami commerciali esistenti tra le nazioni.

Il monito è arrivato a quasi due anni di distanza dall’inizio di un’altra grande crisi globale – la pandemia da COVID-19 – che ha messo a dura prova molte delle regole e delle istituzioni mondiali consolidate. Inoltre, ha portato a riconsiderare il consenso dei modelli capitalistici globalizzati più duraturi.

Il fattore comune è sicuramente l’improvvisa consapevolezza del rischio insito nella dipendenza da singoli mercati o da provider monopolistici di beni, che si tratti di dipendenza energetica, alimentare, sanitaria o economica. Il mondo sta sperimentando le falle di un sistema che, per quanto virtuoso sotto molti aspetti, si basa comunque su un equilibrio che nell’ultimo decennio è diventato sempre più fragile.

Riorganizzazione, resilienza e sicurezza

Resilienza e sicurezza sono diventate le parole d’ordine in un contesto di crescente complessità e instabilità. Sebbene alcuni abbiano sostenuto la necessità di rendere onshore i processi produttivi e le reti della supply chain, ciò non significa necessariamente che il protezionismo e l’unilateralismo siano le risposte giuste. Piuttosto, è necessario stabilire un nuovo equilibrio, ed è proprio ciò che sta accadendo oggi.

In soli due anni, una minima parte nella storia recente del commercio internazionale, molte aziende si sono riorganizzate per mettere in sicurezza le linee di produzione, le reti di distribuzione e cercare di mantenere i costi a un livello che, nonostante l’aumento dell’inflazione globale, è rimasto relativamente gestibile. Si tratta di un vero e proprio tour de force organizzativo e logistico, la cui enormità non è sempre pienamente apprezzata dai consumatori.

Più che la capacità di adattarsi, forse è la velocità con cui questo adattamento è richiesto a costituire un’impresa notevole. Quanti anni, o addirittura decenni, avrebbero impiegato le aziende alla fine del secolo scorso per riorganizzare i loro flussi operativi in una crisi globale simile? Sarebbe stato possibile senza i sistemi connessi, i processi digitalizzati e i rapidi cicli di innovazione di cui disponiamo oggi? La risposta è quasi certamente no.

C’è sempre un lato positivo

Secondo Manhattan Associates, azienda tech che opera nel settore della supply chain e nel commercio omnicanale, sarebbe un errore pensare che le difficoltà di oggi (carenza di prodotti e personale, pressione inflazionistica, ecc.) siano semplicemente incidenti ciclici. La globalizzazione del commercio, insieme alle supply chain che ne sono alla base, oltre all’aumento del rischio politico, tecnologico e informatico, sono tutte aree che creano complessità, fragilità e incertezza, e sono in aumento da molti anni.

Di fronte a tali rischi, è fondamentale che le organizzazioni, i governi, le società e i singoli individui abbiano a disposizione gli strumenti per potersi adattare rapidamente, costruendo e avendo accesso a reti che siano resilienti, innovative e adattabili.

La globalizzazione come la si conosceva è stata stravolta negli ultimi due anni, e crisi ripetute (se non addirittura diverse) stanno provocando la rottura del modello. Sebbene le tensioni a breve termine causate da questa scissione siano avvertite da miliardi di persone in tutto il mondo, si tratta di un processo che bisogna cercare di capire se si vuole costruire un nuovo approccio al commercio globale più resiliente, sostenibile e adattabile nel lungo periodo.

Naturalmente, questa non è la fine della globalizzazione o del capitalismo. Tuttavia, potrebbe rappresentare l’inizio di una nuova fase della sua evoluzione, che vedrà le supply chain unificate svolgere un ruolo sempre più importante nel flusso del commercio globale.