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Le nomine del governo Draghi: da Cdp a Fs-Anas oltre 500 nomi e decine di miliardi di soldi pubblici

(come riportato da Sergio Rizzo su La Repubblica)

Dai prossimi rinnovi dei cda delle aziende di Stato dipenderanno anche le possibilità di successo del Recovery, la Cassa ha sul tavolo dossier decisivi, dalla rete Internet alle Autostrade Il gruppo delle ferrovie è la più grande stazione appaltante italiana

Nove anni non sono bastati. E il 23 dicembre 2020, mentre tutti gli italiani si preparavano al Natale più mogio degli ultimi sette decenni, Mauro Masi ha potuto festeggiare un regalo insperato: ancora tre anni alla Consap. Non più la poltrona di amministratore delegato, occupata ininterrottamente dal 2011, ma quella di presidente, con deleghe. Ancora tre anni, e poi chissà.

Nonostante il principio del limite massimo di tre mandati per i vertici delle società pubbliche sia generalmente accettato. Nonostante il sospetto ventilato da una velenosa interrogazione parlamentare grillina, poi misteriosamente ritirata, di una incompatibilità dell’incarico di gestione di una particolare compagnia assicurativa pubblica, qual è Consap, con la presidenza di una banca privata, qual è Banca del Fucino.

Nonostante, insomma, la logica che vorrebbe ormai richiuso serenamente quel paracadute spalancato per l’ex direttore generale della Rai quasi dieci anni fa da Silvio Berlusconi e tenuto aperto da Matteo Renzi, Paolo Gentiloni e ora pure da Giuseppe Conte.


Le nomine pubbliche

Perché raccontare questa storia per parlare del nuovo incombente giro di nomine pubbliche? Giro davvero imponente, se si pensa che una puntigliosa ricostruzione degli incarichi in scadenza fatta dal centro studi CoMar di Massimo Rossi ne ha calcolate qualcosa come 510, fra consigli di amministrazione e collegi sindacali. Perché forse il quarto mandato consecutivo di Masi alla Consap chiude un’epoca che sebbene data per morta e sepolta da tempo, in realtà non si era mai chiusa.

Per assurdo che possa sembrare considerando chi è stato al governo, gli ultimi tre anni sono stati fra i peggiori di quella che viene definita impropriamente la Seconda repubblica, con la sublimazione delle spartizioni partitiche correntizie e dell’incompetenza, quando non dei favoritismi e dei santi in paradiso. E la mortificazione del merito. In occasione dei rinnovi di certe cariche si è perfino sorvolato con indifferenza su un tabù a parole invalicabile per gli oracoli del Nuovo che avanza: i guai giudiziari dei candidati eccellenti.

Detto questo, va anche precisato che non c’è da illudersi. Troppe volte è già successo. Ci avevano promesso, per esempio, che arrivavano finalmente le donne. Ma le abbiamo viste quasi sempre soltanto nei cda. O alle presidenze, quando andava proprio bene. Raramente con poteri veri. Su 29 società nell’elenco delle partecipazioni del ministero dell’Economia, soltanto in due la responsabilità di amministratore delegato è affidata a una donna. E Amco e Invimit non sono neppure nella lista delle società “top”. Due su 29 fa il 6,8 per cento.


Cambi di rotta per 510 poltrone

Ma non soltanto per queste considerazioni sarebbe lecito attendersi un cambio di rotta. Fra le 510 nomine censite dal centro studi CoMar che il governo di Mario Draghi si appresta a fare nei prossimi mesi alcune scelte potrebbero rivelarsi addirittura decisive per il successo del Recovery plan.

La prima riguarda la Cassa depositi e prestiti, affidata tre anni fa dal governo gialloverde all’amministratore delegato Fabrizio Palermo, manager di provenienza interna, affiancato a partire dal 2019 da un presidente nominato dal successivo governo giallorosso. È Giovanni Gorno Tempini, che alla Cdp aveva già avuto per cinque anni la responsabilità oggi in capo a Palermo, e nell’aprile dello scorso anno ha fatto parte del team di esperti per il rilancio dell’economia italiana guidato dall’attuale ministro della Transizione digitale Vittorio Colao.

Negli ultimi tre anni la Cdp ha assunto una fisionomia assai diversa da quella di un tempo, quando era un semplice braccio operativo del Tesoro, che lì custodiva molte delle sue partecipazioni. Ora è qualcosa di simile a una holding pubblica con una funzione di intervento nell’economia anche insieme ai privati. Per questo è stata spesso recentemente paragonata al vecchio Iri; forse non del tutto correttamente, però di sicuro in sintonia con un certo statalismo di ritorno.

Ma è un fatto che la Cdp sia oggi impegnata su molti terreni che ricordano l’epoca delle partecipazioni statali, come le costruzioni. E le autostrade, che secondo i piani non ancora digeriti da Atlantia, dovrebbero rientrare nell’alveo pubblico proprio attraverso la Cassa.

Anche se in questo frangente la partita più importante è quella sulla rete unica. Qui la Cdp ha un ruolo fondamentale nel progetto di integrazione fra Tim, di cui è azionista al 9,8 per cento, e Open fiber, società fra la stessa Cassa e l’Enel: che ha fra l’altro come amministratore delegato una donna, Elisabetta Ripa.

Il progetto è uno snodo cruciale per facilitare il salto tecnologico del Paese, e non è privo di difficoltà per le condizioni poste dai vari attori. Senza dimenticare che alla Cdp è stato anche affidato il compito di accorrere in sostegno delle imprese private stremate dalla pandemia.

Sullo sfondo c’è anche la Saipem, presieduta dall’ex amministratore delle Poste Francesco Caio, consigliere del precedente governo giallorosso per l’Ilva. La Cdp ne controlla direttamente il 12,5%, mentre un altro 30 è nelle mani dell’Eni, a sua volta formalmente controllato dalla Cassa. La faccenda non è semplice. La Saipem ha sofferto, prima e durante la pandemia, e ora deve trovare una missione nuova nella “transizione energetica”. Qualcuno spera pure nel tunnel sotto lo Stretto di Messina.


Le Ferrovie

La seconda scelta decisiva è quella che riguarderà il futuro ponte di comando delle Ferrovie, oggi presidiato dall’amministratore delegato Gianfranco Battisti. Fs è la più grande stazione appaltante italiana. Non bastasse, controlla anche l’Anas, attualmente amministrata da Massimo Simonini, che è la seconda stazione appaltante. Per inciso, molti dei cantieri fermi per 2 miliardi denunciati dal presidente dell’Ance Gabriele Buia riguardano proprio le strade statali. La ripresa delle opere pubbliche, uno dei punti cardine del Recovery plan, non può che dipendere da uno scossone al sistema Fs-Anas e alle regole bizantine cui è sottoposto. Basta dare un’occhiata all’elenco delle 59 opere commissariate in extremis dal governo Conte bis: sono quasi tutte strade e ferrovie.

I nomi? Ne sono stati fatti di tutti i colori, soprattutto fra i veri o presunti amici di Draghi. Rimbalza in ogni fantasiosa ricostruzione quello di Dario Scannapieco, che tre anni fa l’ex ministro dell’Economia Giovanni Tria avrebbe preferito a Palermo per la Cdp. Ma la verità è che nessun dossier è ancora all’esame di chi può decidere.

Certo, non è un mistero che alcune forze politiche, tipo Italia Viva, siano particolarmente interessate per esempio alle nomine ferroviarie. Tuttavia l’idea che Draghi possa seguire le regole del manuale Cencelli pare campata per aria. L’unica battaglia che volentieri lascerà ai partiti, presumibilmente, è quella della Rai. E lì, state sicuri, ne vedremo delle belle.