Condividi, , Google Plus, LinkedIn,

Stampa

Opere bloccate per 62 miliardi, serve terapia d’urto sulle regole

Manutenzioni assenti, opere incompiute e cantieri che non partono: il rilancio dei lavori passa da una profonda riforma dell’impianto normativo

Marco Morino di Edilizia e Territorio ha scritto oggi un interessante servizio analizzando la situazione critica delle opere incompiute e dei cantieri che i Italia non ripartono.

Un Paese bloccato. Infrastrutture obsolete o al collasso, manutenzioni assenti, reti inefficienti, opere incompiute, cantieri che non partono, strutture poco sicure e processi lunghi e complessi nelle amministrazioni pubbliche.

In Italia, il sistema delle infrastrutture e delle reti fisiche e immateriali (dai trasporti al digitale) vive da anni un periodo di grande difficoltà da cui fatica a riprendersi. Un ritardo che è stato certificato anche dalla Banca Mondiale, secondo la quale l’Italia occupa la 21° posizione al mondo in termini di efficienza del suo settore logistico e la 12° tra i paesi dell’Ue.

Opere bloccate
Eppure la qualità delle infrastrutture ha un ruolo decisivo sul livello di competitività di un Paese. A fronte di ciò nel 2018 (ultimo dato disponibile) abbiamo assistito al paradosso del ministero delle Infrastrutture che non ha speso 5,7 miliardi di euro dei fondi in bilancio, il 60% della disponibilità di cassa.

Si trattava di risorse che, per la maggior parte, riguardavano infrastrutture pubbliche e logistica e soprattutto gli investimenti stradali dell’Anas. E non è neppure la prima volta. Nel 2017 i fondi non spesi da parte del ministero delle Infrastrutture erano ammontati a poco più di 4 miliardi. Gabriele Buia, presidente dell’Ance (l’associazione nazionale dei costruttori edili), stima che in Italia ci siano 749 opere infrastrutturali bloccate per un valore complessivo di 62 miliardi di euro.

Di queste, 101 sono grandi opere (importo superiore ai 100 milioni di euro), per un totale di oltre 56 miliardi di euro, mentre 648 sono opere medio-piccole, per un valore di circa 5,5 miliardi di euro. Il risultato è drammatico: 962mila posti di lavoro in meno e 217 miliardi di euro di mancate ricadute sull’economia.

«Nell’elenco c’è di tutto – dice Buia -: scuole, ospedali, strade e anche fondamentali opere di messa in sicurezza come quelle che riguardano il letto del fiume Sarno, noto per la tragica frana di oltre 20 anni fa che causò 160 morti! 220 milioni non utilizzati per un’opera che può salvare vite umane! Cosa stiamo aspettando a intervenire?». È evidente che c’è qualcosa che non funziona nella pubblica amministrazione.

Lamentando i ritardi nello sblocco delle opere, Buia aggiunge: «Cominciamo ad affrontare le priorità: la lotta alla burocrazia anzi alla burocrazia in stile Soviet. È bene cominciare a chiamarla così perché ormai è un potere a sé, incontrollabile, ingestibile. Una vera e propria dittatura che spoglia il cittadino e le imprese di tutti i propri diritti.

Ministeri, cabine di regia, unità e leggi per la semplificazione. Ma senza risultati». Anche gli industriali del Nord Ovest – rappresentati da Assolombarda, Unione industriale di Torino e Confindustria Genova – denunciano la paralisi: «Il nuovo governo Conte bis, insediatosi nel settembre 2019, a oggi non ha inciso sullo sblocco di opere che erano già state approvate, limitandosi a confermare quelle già avviate in precedenza ed in particolare quelle ricomprese nei grandi corridoi europei (esempio Torino-Lione, Terzo Valico ferroviario dei Giovi, alta velocità Brescia-Verona)».

La replica del governo
Tuttavia, rispondendo nei giorni scorsi in question time al Senato, la ministra delle Infrastrutture, Paola De Micheli, respinge le critiche: «In appena 162 giorni – dice – sono state sbloccate opere e finanziamenti ad enti locali per opere e trasporti, immediatamente cantierabili, per un valore complessivo di 9,6 miliardi di euro. Cito solo alcuni degli interventi sbloccati: 470 milioni per gli interventi di messa in sicurezza di linee ferroviarie locali, 250 milioni per gli interventi relativi ai ponti del bacino del Po, 250 milioni per il piano straordinari invasi, oltre 500 milioni per la Campogalliano-Sassuolo (un’opera di cui si discuteva da oltre vent’anni), 75 milioni di euro per la salvaguardia della laguna di Venezia, 460 milioni per la statale Telesina, oltre 1,3 miliardi per la statale 106 Jonica».

La crescita che non si sente
Nel 2019, stima ancora l’Ance, gli investimenti in costruzioni sono cresciuti del 2,3% rispetto al 2018. Non si tratta però di un aumento in grado di segnare una vera svolta e di stabilizzare un settore che negli ultimi 11 anni si è ridotto ai minimi storici.

Nel 2019 si è verificato il primo segnale positivo (+2,9%) per gli investimenti in opere pubbliche, dopo una caduta iniziata nel 2005. La crescita del 2019, però, è totalmente insufficiente per parlare di uscita dalla crisi per un comparto che ha perso complessivamente dal 2005 al 2019 il 58% degli investimenti.

Il quadro regolatorio
Il rilancio degli investimenti in infrastrutture passa da regole nuove, più semplici e snelle e dalla partecipazione al mercato dei contratti pubblici di investitori privati. «Bisogna partire dal Codice degli appalti – dice Stefania Radoccia, Managing Partner dell’area Tax and Law di EY – e per farlo è necessario promuovere un cambio di paradigma, in cui la logica collaborativa prenda il posto di quella conflittuale e della sfiducia». «L’attuale impianto normativo – spiega Radoccia – guarda con sfiducia verso gli operatori economici e verso l’attuale classe dirigente pubblica.

Le imprese sono percepite più come antagoniste che come risorsa di crescita, e il sistema della pubblica amministrazione è ritenuto non sempre conforme a svolgere i compiti a esso affidati. Muovendosi in tale direzione qualsiasi scostamento dal dato testuale è vissuto come una violazione o un’irregolarità».

Gli esempi virtuosi di Genova o Expo rappresentano un modello di riferimento. In quelle occasioni le figure commissariali hanno agito come veri e propri project manager realizzando grandi opere in modo tempestivo e garantendo i principi di trasparenza, imparzialità ed efficacia.

«Si può quindi affermare – dice Radoccia – che tali situazioni hanno dimostrato come è necessario abbandonare l’attuale prospettiva per adottarne una diversa che renda il commissario, o meglio, il project manager motore dell’azione amministrativa».

Non è allora forse maturo il tempo – si chiede Radoccia – per spingere sull’acceleratore e incoraggiare il rilancio del Codice attraverso un nuovo paradigma in cui a poche norme che tratteggiano i principi generali si accompagna la piena realizzazione della politica infrastrutturale del Paese? «E così – conclude Radoccia -, con tale mutato approccio, agevolare l’adesione di operatori e investitori privati a partecipare al mercato dei contratti pubblici perché il sistema possa ripartire?».