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Londra, i ponti storici sono pericolanti

(come riportato da Enrico Franceschini su La Repubblica)

Il London Bridge, proprio come nella famosa canzone, sta per “venire giù” ed è chiuso per restauri. Stesso destino per l’Hammersmith Bridge e il Vauxhall Bridge. Il New York Times ha messo la storia in prima pagina e cita il Ponte di Genova, costruito in un anno, come esempio virtuoso

“London Bridge is falling down” è il titolo di una filastrocca del 1744 conosciuta da tutti i bambini inglesi. Ma ora il verso in questione, “il Ponte di Londra sta venendo giù”, ha assunto un significato concreto. L’Hammersmith Bridge, il ponte che collega il quartiere omonimo a nord del Tamigi con quello di Barnes a sud, è chiuso perché rischia di crollare.

Altri due ponti sul fiume, il London Bridge della suddetta canzoncina e il Vauxhall Bridge, sono chiusi per lavori di restauro. Perfino il Tower Bridge, forse il ponte più famoso della capitale, che si apre per permettere il passaggio delle navi, ha dovuto recentemente chiudere per due giorni a causa di un guasto meccanico che, appunto dopo il transito di un’imbarcazione, aveva lasciato aperti e sospesi i suoi ponti levatoi.

Non è una coincidenza. Piuttosto, è il sintomo di un più ampio problema: le infrastrutture del Regno Unito cadono a pezzi. Molte hanno radici antiche e necessitano continue riparazioni. Ma fra il decennio di austerità seguito alla grande crisi finanziaria del 2008 e la peggiore recessione del dopoguerra innescata dalla pandemia da Covid 19, non ci sono i soldi. Non li hanno le autorità locali, né quelle statali. I ponti sul Tamigi sono solo la punta dell’iceberg.

Restaurare l’Hammersmith Bridge, un ponte costruito nel 19esimo secolo, costerebbe 140 milioni di sterline, circa 150 milioni di euro. Effettuare almeno una riparazione parziale, che consenta a pedoni e ciclisti di continuare a usarlo, costerebbe meno della metà, ma non ci sono fondi pubblici nemmeno per quello.

Le condizioni del ponte sono così allarmanti che le autorità sono state costrette a proibire anche il traffico marittimo sottostante: così quest’anno non potrà esserci, perlomeno non sul percorso tradizionale, nemmeno la storica regata Oxford-Cambridge, in cui si sfidano i vogatori delle due più prestigiose università nazionali, che passava sotto le volte dell’Hammersmith.

I londinesi protestano, specie quelli che abitano nei due quartieri improvvisamente separati – anziché collegati – dal ponte. Dice un residente di Barnes al New York Times, che ha messo la storia dei ponti cadenti di Londra in prima pagina: “L’Italia ha ricostruito in un anno il ponte crollato a Genova. Perché non possiamo farlo anche noi? Santo cielo, questa è l’Inghilterra!” Ma proprio questo è il punto.

Boris Johnson, quando era sindaco di Londra, voleva addirittura costruire un nuovo ponte sul Tamigi, interamente ricoperto di vegetazione, un “ponte verde” all’insegna dell’ambientalismo: spese un bel po’ di denaro dei contribuenti per il progetto, poi non se ne fece niente. Avrebbe fatto meglio a riparare quelli già esistenti.

Adesso qualcuno ricorda che nel 1967 il vecchio, originale e cadente London Bridge fu venduto a un miliardario americano, che lo smontò pezzo per pezzo e lo ha ricostruito nel deserto dell’Arizona come attrazione turistica: forse bisognerebbe trovare un cliente analogo per l’Hammersmith Bridge e poi, con i soldi ricavati dalla vendita, costruirne uno nuovo a Londra.

Ma “London Bridge is falling down”, al di là delle battute, è una metafora perfetta per la nazione in cui è nata la rivoluzione industriale e che fino a dieci anni fa aveva la più forte economia d’Europa, ma che ora, fra Brexit e leader populisti, sembra avere smarrito la propria identità.