Condividi, , Google Plus, LinkedIn,

Stampa

ll Bel Paese digitale arranca in retrovia: il settore pubblico non dà la spinta

Photo credit: La Repubblica

(come riportato da Stefano Carli su La Repubblica)

Alla vigilia dell’edizione 2020 del Digital Index, i numeri fanno temere che lo Stivale possa scivolare oltre il 24esimo posto. Confindustria: «Brutto segnale il balletto sullo Spid dentro o fuori dal Milleproroghe».

Eurostat (l’Istat europea) ha finito la raccolta dei dati sul 2019 su cui, a maggio, baserà la nuova edizione del Desi, il Digital Economy and Society Index attraverso cui fotografa lo stato della digitalizzazione in tutti i 27 paesi dell’Unione Europea confrontando così su basi omogenee i livelli raggiunti da ciascuno.

«Speriamo solo di non peggiorare ulteriormente il 24esimo posto dello scorso anno – commenta Cesare Avenia, presidente di Confindustria digitale, dopo aver scorso i principali indicatori riguardanti l’Italia – La preoccupazione viene dalla situazione di incertezza che si evidenzia nell’azione politica, soprattutto sul fronte della digitalizzazione del settore pubblico. Il balletto sullo Spid dentro e fuori dal Milleproroghe è solo l’ultimo segnale. E il risultato è quello che Eurostat non ha potuto far altro che ratificare. Il nostro gap digitale è ancora tutto lì».

I numeri del gap
Il Desi è importante perché si basa su indicatori omogenei. Questo spiega perché i numeri che si possono trovare altrove sono facilmente molto diversi. Per esempio, non è raro trovare un tasso di penetrazione di internet tra le famiglie italiane attorno al 92%, dato che ci mette in linea con le maggiori economie dell’Ue. Peccato che la cifra pecchi di ottimismo perché comprende tutte le possibili connessioni al web, compresi gli smartphone per i quali basta utilizzare la app di Facebook o di Whatsapp per i messaggi per far parte della grande comunità degli utenti della rete. Anche se poi non la si utilizza nemmeno per fare una ricerca su Google.

Meglio allora il dato di Eurostat che certifica il numero delle famiglie che hanno una connessione a banda larga. E qui i numeri iniziano a calare: sono l’84%, ossia 5 punti sotto la media Ue. Se poi andiamo a vedere quanti sono gli italiani che usano internet almeno una volta a settimana, scendiamo al 74%, e qui siamo 11 punti sotto l’Europa (85%), e ben 13 sotto Germania, Francia e anche Spagna, che sono all’87%. In sostanza, prendendo le statistiche dalla coda, in Italia c’è un 17% di cittadini che non hanno mai usato internet, più o meno 1 su 6. Mentre in Germania sono appena il 5%, in Inghilterra il 3% e in Svezia il 2%.

Se non ci si connette alla rete è perché non la si usa. E infatti quando i numeri di Eurostat, opportunamente rielaborati dall’Ufficio Studi di Confindustria Digitale, vanno in profondità, il quadro si fa ancora più fosco. I pagamenti digitali via internet, il cosiddetto internet banking, viene utilizzato in Italia appena dal 36% degli utenti, quasi la metà della media Ue attestata al 58%. In pratica solo un utente su 3 usa sistemi di pagamento online.

E non è solo una questione di preferire il contante. Una recentissima ricerca dell’Osservatorio Turismo Digitale del Politecnico di Milano è arrivato alla stessa misurazione, cioè di un utente su tre che paga online, in media. Ma quando si paga di persona, fisicamente, il contante è usato solo nel 27% dei casi per quanto riguarda i biglietti di treni e aerei e i costi di pernottamento, mentre sale al 50% ma solo per le spese correnti, quotidiane. È proprio che usare le piattaforme online per i propri pagamenti non è ancora entrato nell’uso corrente degli italiani.

L’e-commerce
Questo lo si registra anche nell’e-commerce, dove siamo indietro sia come comportamenti di acquisto individuali, sia – ed è ancora più grave – come utilizzo delle piattaforme B2B e B2C da parte delle imprese. Nel primo caso gli italiani che hanno compiuto almeno un acquisto in rete negli ultimi dodici mesi sono appena il 38% contro una media Ue del 63%. Reciprocamente, gli italiani che non hanno mai compiuto un acquisto online, o lo hanno fatto più di un anno fa, sono il 40% contro il 25% europeo. Tra le imprese la proporzione è la stessa: quelle che ricavano dalle vendite su piattaforme di e-commerce almeno l’1% del loro fatturato (non stiamo parlando di quote iperboliche – sono solo il 10%, mentre in tutta Europa sono il 18%). Ancora più fosca la fotografia allargando lo sguardo all’intero sistema delle Pmi italiane.

Nota infatti l’Ufficio studi di Confindustria Digitale, che considerando anche le imprese che hanno una presenza minima, sotto l’1% del fatturato, nell’e-commerce, il dato generale dice che solo il 18% vende qualcosa dei propri prodotti e servizi su piattaforme online. Potrebbe essere un dato positivo se ci trovassimo davanti ad una accelerazione recente. Ma non è così. Lo scorso anno si è registrato appena un misero 1% in più di Pmi nell’e-commerce, dopo che il dato era rimasto inchiodato al 17% nei tre anni precedenti. Insomma, in quattro anni, dal 2015 al 2019, il numero di imprese italiane che vendono online è rimasto praticamente fermo, mentre nel resto d’Europa sono tutti andati avanti. Non solo le “potenze” Germania Inghilterra e Francia, ma anche la Spagna.

In questo scenario la Pubblica Amministrazione continua ad essere latitante. Sia in termini di mancanza di nuove iniziative per promuovere ulteriori step di digitalizzazione, sia per il modo incongruo in cui le nuove iniziative vengono portate avanti, con poco supporto e spesso con un surplus di complicazioni in mezzo a cui è difficile per le imprese, specie le più piccole, percepire immediatamente e in modo sensibile i vantaggi. Un esempio? i nuovi scontrini fiscale dei negozi che devono registrare per ogni singolo acquisto una serie considerevole di dati relativi all’operazione. Intento lodevole dal punto di vista della trasparenza, peccato che in questo modo gli scontrini si siano allargati e dalle dimensioni medie un po’ più piccole di un vecchio biglietto da visita (analogico) siano ora diventati grandi anche più del triplo, con evidente spreco di carta e costi maggiori per gli esercenti.

La cultura digitale
Tutto il peso della digitalizzazione, dell’alfabetizzazione online degli italiani e delle imprese ricade al momento soprattutto sulle imprese stesse. Anche perché senza un bacino di potenziali utenti preparato tutta la nuova generazione dei servizi basati sul 5G farà più fatica ad affermarsi. E il gap italiano nel settore più innovativo dell’economia potrebbe trasformarsi in un definitivo baratro. Da questa necessità e dalla relativa consapevolezza nascono iniziative come l’Operazione Risorgimento Digitale di Tim. Che ha aperto la strada, ma non resterà un caso isolato.

La stessa Confindustria Digitale è al lavoro su un progetto di alfabetizzazione digitale per le imprese che vedrà presto la luce. «Stiamo pensando ad un roadshow in giro per l’Italia – anticipa Cesare Avenia – per spiegare alle imprese, territorio per territorio, settore per settore, come realizzare la digitalizzazione e soprattutto come accedere a fondi europei che negli altri Paesi Ue stanno dando un contributo notevole a finanziarla. Mentre da noi vengono usati pochissimo. È un altro gap non più tollerabile».