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Il futuro è nei tunnel: ce lo ricorda la storia del Fréjus

Photo credit: YouTube

(Come riportato da Le Strade dell’Informazione)

I tunnel sotterranei per lasciare la superficie alle case e ai giardini: alla Biennale Tecnologia di Torino una riflessione sul tema nel ricordo dei 150 della costruzione dello storico traforo delle Alpi

La viabilità di superficie è congestionata: perché dunque non fare del sottosuolo un grande fattore di crescita e coesione sociale e muoversi sottoterra? Là dove non ci sono problemi di spazio e ostacoli non se ne incontrano potrebbe essere un’opportunità.

Anzi, scavando magari viene pure alla luce qualche prezioso reperto archeologico di cui si ignorava l’esistenza, soprattutto in luoghi come l’Italia il cui sottosuolo è una miniera d’oro da far invidia a quelle mitologiche del Klondike.

Sembra da un certo punto di vista l’uovo di Colombo e dall’altro una soluzione avveniristica mutuata dai romanzi positivisti d’avventura di Jules Verne, ma è stato confermato anche dalle più autorevoli voci del settore: il futuro delle città – e ci sono già molti esempi in giro per il mondo, come Toronto – è nei tunnel sotterranei, per lasciare la superficie a case e giardini e liberarla da strade, ferrovie e gallerie.

I massimi esperti a livello globale del tunnelling hanno dialogato nell’ambito della Biennale Tecnologia, svoltasi a Torino nei giorni scorsi, nell’occasione, come riportato anche da La Stampa, della ricorrenza dei 150 anni del Fréjus.

Il noto traforo delle Alpi è una sfida stupefacente che ancora oggi, come del resto fa sempre la storia, ci parla, insegna, stimola e diventa racconto, tanto da ispirare nell’immediato dopoguerra una delle più profonde e meno note opere di Elio Vittorini,

Il Sempione strizza l’occhio al Fréjus, recentemente ripubblicato per Bompiani, una riflessione toccante sull’operosità della classe operaia che ha costruito l’Italia. Era il 25 dicembre 1870 quando fu aperto l’ultimo diaframma tra i fronti dello scavo.

“La storia delle gallerie comincia qui”, dice il professor Sebastiano Pelizza, socio dell’Accademia delle Scienze di Torino, ideatore del Master post-laurea “Tunnelling and Tunnel Boring Machines”, già presidente dell’Associazione internazionale gallerie. “Fu un’impresa per nulla scontata, a cui seguì un “cinquantennio di fuoco”, con altri grandi trafori transalpini. Subito dopo l’Unità, il nuovo e povero Regno italiano costruì circa 10mila chilometri di ferrovie: oggi ne abbiamo quasi 17 mila, allora ne costruimmo più della metà”.

“Il Fréjus fu la punta di diamante della tecnologia ottocentesca, la madre di tutte le gallerie alpine, la più lunga del tempo, che insegnò il futuro al mondo”, spiega Pelizza con Daniele Peila, professore ordinario del Dipartimento di Ingegneria dell’Ambiente, del Territorio e delle Infrastrutture del Politecnico di Torino. Il Fréjus fu un’opera fortemente voluta da ingegneri italiani come Germano Sommeiller, Severino Grattoni e Sebastiano Grandis, concepita dall’imprenditore e commissario doganale Joseph-François Médail, che nel 1832 lo propose a Carlo Alberto. L’opera fu messa da parte a causa delle guerre di Indipendenza finché nel 1857, grazie al conte Cavour, i lavori ebbero inizio.

Erano gli anni delle grandi invenzioni e messa a punto delle macchine che perforavano le montagne e per il Fréjus ne vennero inventate di straordinarie: “Sommeiller», sottolinea Pelizza, “fu un genio, inventò le perforatrici ad aria compressa, azionate da compressori a colonna d’acqua. Prima allora i fori di mina si facevano a mano, due uomini con mazza e scalpello. Inizialmente volevano procedere così, a forza di polvere nera, picconi e palanchini, strappando il cuore di roccia della montagna”.