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I lavori mai fatti al ponte Morandi, “Aspi voleva farli pagare al Ministero”

Photo credit: Primocanale

(come riportato da Giuseppe Filetto su La Repubblica)

Un ingegnere interrogato avrebbe dichiarato al Pm che prima del crollo il consolidamento e la messa in sicurezza del viadotto sarebbero stati presentati come manutenzione straordinaria, quindi a carico dello stato e non della concessionaria

Come in una sorta di roulette russa in cui ognuno cerca di evitare il colpo in canna e riservarlo agli altri, avevano “scommesso” sul progetto di retrofitting, presentandolo come un intervento di manutenzione straordinaria, un difetto strutturale e di progettazione, in modo che i costi fossero a carico del Ministero delle Infrastrutture e non della concessionaria.

Anche se Autostrade per l’Italia e la capogruppo Atlantia sapevano del “pericolo di crollo”, conoscevano quel documento di “programmazione del rischio”, stilato dall’apposito ufficio, relativo alle condizioni del ponte Morandi prima del disastro. «Era un rischio teorico e nessuno di noi immaginava che crollasse – ha dichiarato il testimone –. Pensavamo di potere dare avvio al progetto di retrofitting in tempo».

Questo ha confermato l’ingegnere della holding, interrogato venerdì scorso dal Pm Walter Cotugno (titolare insieme al suo collega Massimo Terrile dell’inchiesta madre, quella sul crollo). L’interrogatorio è stato tenuto nascosto, all’interno della caserma Testero della Guardia di Finanza a Sampierdarena.

E però dal 1993, dall’anno del primo intervento strutturale di rinforzo sulla pila 11, sulle altre campate (la 9, quella crollata, e la 10, quella demolita con la dinamite il 23 luglio del 2019) non era stato fatto alcun intervento pesante di messa in sicurezza, nonostante una relazione del 1993 segnalasse problemi di corrosione.

E una precedente perizia ordinata da Aspi allo stesso progettista. L’ingegnere Riccardo Morandi già nel 1981, appena 14 anni dopo l’inaugurazione, ammette gli errori e scrive: “… La struttura esposta ad agenti atmosferici presenta corrosioni di più sul lato mare rispetto al lato monti… una degradazione del cemento armato molto rapida in alcune parti… molto di più di quanto ci si potesse aspettare…”.

«C’era il progetto di retrofitting — ha dichiarato l’ultimo interrogato come persona informata sui fatti — avevamo puntato su quello». Ma è solo dalla fine del 2014 che si inizia a pensare all’intervento da 20 milioni di euro.

Non soltanto quindi Giuliano Mari, attuale presidente di Autostrade, ma anche gli altri dirigenti della società sarebbero stati a conoscenza di quel documento. Mari è stato sentito il 6 agosto scorso a Genova, in gran segreto, come testimone.

L’ingegnere di 74 anni, tanti dei quali trascorsi tra la capogruppo (Atlantia) e le altre società ad essa collegate, è stato nominato presidente di Aspi lo scorso gennaio: ha sostituito Fabio Cerchiai, e la sua nomina è stata contestuale a quella di Roberto Tomasi (indagato limitatamente e nell’ambito del filone di inchiesta relativo ai pannelli fonoassorbenti difettosi), amministratore delegato che ha preso il posto di Giovanni Castellucci. Quest’ultimo dall’indomani della strage del 14 agosto 2018 è stato indagato, poi “licenziato” da Autostrade con una liquidazione da 13 milioni di euro.

Tutti i testimoni sentiti finora sull’argomento avrebbero ammesso che tra il 2014 e il 2016 l’attestato stilato dall’apposito ufficio di Aspi — in cui si parlava di “rischio crollo” per il viadotto sul Polcevera — sarebbe stato trasmesso alle varie società del Gruppo Atlantia.

Secondo quanto trapela, gli interrogatori sono serviti a cristallizzare un punto fermo sulla conoscenza del “rischio crollo”: quanto dichiarato durante questi due anni di indagini dai testimoni, oltreché dalle mail e dalla corrispondenza cartacea sequestrate.

Negli anni in cui Mari era nel consiglio di amministrazione della holding, faceva anche parte del comitato che gestisce “il rischio”. Come i dirigenti interrogati negli scorsi giorni, fra cui l’ingegnere sentito venerdì. Tutti, in qualche modo, avrebbero confermato di essere a conoscenza del documento.

Anche se fino al 20 novembre 2019, quindici mesi dopo del disastro, i dirigenti di Aspi davanti ai magistrati e ai media avevano dichiarato che per il viadotto genovese nessun report di Spea (società gemella delegata al monitoraggio della rete autostradale fino al 2019) aveva mai messo in allarme, scritto nero su bianco, del pericolo di cedimenti.

Quel documento del “rischio crollo” svelato in esclusiva da Repubblica il 20 novembre 2019, era stato scovato all’interno del registro digitale di Atlantia nel marzo dello stesso anno dai finanzieri del Nucleo Operativo Metropolitano (guidati dal tenente-colonnello Giampaolo Lo Turco) e del Primo Gruppo di Genova (diretto dal colonnello Ivan Bixio).
Ma adesso c’è di più.

I vertici di Aspi e di Atlantia, pur a conoscenza del pericolo, avrebbero puntato a far rientrare i costi nel piano finanziario del ministero.

E non sulla manutenzione ordinaria pagata con i pedaggi. “Non è un ragionamento folle — spiega un ingegnere del Mit che per 13 anni si è occupato di autostrade, ma che per ovvie ragioni preferisce l’anonimato — non c’è obbligo da parte del concessionario di intervenire qualora si tratti di difetti strutturali.

Non si può affermare che l’ammaloramento dei tiranti sia colpa di Autostrade. Certo — precisa l’ingegnere — diventa un ragionamento insano davanti ad una situazione di pericolo”.

Il progetto di retrofitting sulla pila 9 è avviato soltanto nell’autunno 2017, a febbraio 2018 vagliato dalla commissione tecnica del Provveditorato alle Opere Pubbliche della Liguria, in aprile approvato da Autostrade e soltanto a giugno arriva al Mit per l’ok definitivo. I lavori sarebbero iniziati in autunno: troppo tardi, il 14 agosto la strage con 43 morti.