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Dopo il ponte Morandi e il Mose, 13 cantieri a due passi dal traguardo

Photo credit: La Repubblica

(come riportato da Stefano Carli su La Repubblica)

Sono strade, ferrovie, metropolitane che l’ultimo monitoraggio Cresme per il Servizio studi della Camera dà per prossimi alla conclusione, ma le incognite sono sempre dietro l’angolo per una macchina che non sa andare più veloce

Prima il nuovo ponte Morandi, poi il Mose: nel giro di pochi mesi e nel pieno della pandemia l’Italia delle grandi opere sembra essersi risvegliata dal suo lungo sonno. Ma, mentre per il ponte d Genova l’accelerazione è sotto gli occhi di tutti con i suoi tempi di ricostruzione rimasti al di sotto dei due anni dal crollo dell’agosto 2018, con il Mose è tutt’altra storia: quello del 6 ottobre scorso, è stato infatti solo un test.

Positivo, fortunatamente, ma la vera fine dei lavori per il sistema di dighe mobili è previsto per il prossimo anno, come si rileva dall’elenco pubblicato qui in pagina e che è frutto dell’ultimo monitoraggio annuale sullo stato di avanzamento delle grandi opere strategiche in Italia che il Cresme realizza per il Servizio Studi della Camera dei Deputati.

Il Mose è in buona compagnia: sono 13 in tutto le opere che chiuderanno i cantieri per fine lavori di qui al prossimo anno. L’elenco si spinge fino al 2022 solo per inserire l’unica opera che dovrebbe terminare in quell’anno, stando alle previsioni, ossia la Metro C di Roma.

Sei tratte metropolitane e una ferroviaria, due stradali e due opere logistiche, il Mose, appunto, e il porto di Taranto. Ma il miracolo del Morandi non deve illudere troppo e la data indicata per il fine lavori di quelle opere rischia di slittare di nuovo.

“Arrivate a questo punto, se non ci saranno novità che necessitano di ulteriori iter autorizzativi si dovrebbe essere davvero nella fase finale, anche se poi un rinvio di un altro anno è frequente”, spiega Mercedes Tascedda responsabile Opere Pubbliche del Cresme. E un rinvio di un anno per opere che in media ne richiedono oltre 15, dalla progettazione al fine cantieri, non sembra molto. Ma le incognite non mancano mai.

La Sicilia ferma

In Sicilia per gli ultimi 30 chilometri della Strada dei Poeti, la statale 640, c’è stato il caso della crisi finanziaria del general contractor Cmc che ha bloccato per due anni lavori e pagamenti alle società subappaltatrici. Ma da gennaio prossimo si apriranno le prime tratte. Per la Pedemontana veneta (varo del progetto nel 2011) ci si è invece messo uno smottamento e un incidente sul lavoro: assieme hanno bloccato i lavori per 4 anni in una galleria tra Vicenza e Treviso. Ora si riparte, in teoria mancano solo 1,8 chilometri di tunnel. Dove però si avanza a un metro al giorno.

E di questo passo si rischia di fine fra oltre 5 anni. Tempi lunghi anche per il passante ferroviario di Palermo, che collegherà a doppio binario la città con l’aeroporto di Punta Raisi: È completato al 95% e essendo partito nel 2018 non è un brutto risultato, poi, durante i lavori, si sono lesionate 5 palazzine che dovevano essere demolite.

La scorsa settimana è stata tirata giù l’ultima e ora i lavori potranno proseguire. Per evitare contenziosi che avrebbero paralizzato per anni un’opera del valore di un miliardo, FS ha comprato le palazzine. Buone notizie anche per la Sassari Olbia: gli 80 chilometri sono ormai quasi completati, e dovrebbero slittare al 2021 solo i 12 chilometri del lotto 2 a causa del fallimento di due ditte appaltatrici.

Così come dovrebbero terminare a breve i lavori sull’ultima tratta della linea 6 della metro di Napoli: una tratta di meno di 3 chilometri per concludere un’opera che risale ancora ai Mondiali di calcio del 1990. Slitta invece di qualche mese, ad aprile 2021, l’apertura della nuova tratta della linea 1 della metro di Torino: 2 chilometri di linea per convogli a guida automatica che arriveranno a compimento in “soli” 8 anni.

Lo studio Cresme

La lunghezza degli iter delle opere infrastrutturali è una delle tare storiche del sistema Italia. Uno studio del Cresme che analizza un campione sostanzioso di grandi opere italiane nell’arco di quasi due decenni ha reso possibile una misurazione più completa del fenomeno.

Per realizzare un’opera infrastrutturale in Italia servono in media oltre 15 anni, ma con differenze tra tipologia e tipologia, dai quasi 20 anni per le metropolitane ai 13 delle strade. Con le dovute eccezioni, come i 30 anni della linea ferroviaria sul terzo valico dei Giovi tra Liguria e Lombardia, dato in conclusione nel 2024, per ora.

Ma non è solo la lunghezza complessiva. Lo studio rileva come quasi il 70% dei ritardi si producano nella fase pre-gara, ossia quando si mette a punto il progetto preliminare e si richiedono autorizzazioni, a livello nazionale e locale, e arrivano le maggiori richieste di variazioni. Ma sono anche anni in cui si spende poco, se non il costo per la collettività della mancanza di un’opera necessaria. Infatti, calcola il Cresme, gli esborsi dalle casse pubbliche iniziano a diventare sostanziosi solo dopo il decimo anno.

Insomma, i soldi stanziati in un determinato anno vengono poi effettivamente spesi molti anni dopo, creando un sistema di dilazione sistematico con masse di “residui passivi” in costante crescita nelle pieghe dei bilanci delle amministrazioni.

Forse anche per questo tra le 17 grandi opere infrastrutturali che il governo ha inserito nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ben 12, per l’86% degli importi, facevano già parte delle opere della Legge Obiettivo, Sono quindi, come nota l’Ance, l’associazione confindustriale dei costruttori, interventi in programmazione da quasi 20 anni.

Smontare questo marchingegno di inefficienze è difficile perché è qualcosa di connaturato all’organizzazione stessa della pubblica amministrazione, con pratiche che si sono stratificate nel tempo.

Nota uno studio dell’Ance presentato a fine luglio scorso e con il significativo titolo di “Mille e una norma”, che la legislazione italiana sulle opere pubbliche dal 1994 ad oggi ha sfornato 500 provvedimenti, in media venti l’anno, per un totale di 45.520 pagine: stampate fanno 136 chilometri di carta. Esclusi i rimandi a leggi precedenti.

E tutto è andato peggiorando. La Legge Merloni del 1994 era composta da 38 articoli per un totale di 48 pagine. Il Codice De Lise del 2006 e il Codice Appalti del 2016 hanno oltre 200 articoli ciascuno. Con la prima fase della pandemia abbiamo avuto il Decreto Semplificazioni. Poi è stato varato il Bonus Edilizia con le detrazioni al 110%. Buone iniziative, solo che nella macchina amministrativa italiana ogni cambiamento crea il caos. Non è un’opinione, ci sono i numeri.

Spiega il direttore del Cresme Lorenzo Bellicini. “Quando è stato varato il nuovo Codice Appalti, nel 2016, il mercato era in una fase di ripresa. Le nuove regole hanno richiesto un lavoro di revisione di meccanismi e procedure. Questo ha subito prodotto una forte riduzione dei nuovi bandi una lenta ripresa nel 2017 e una crescita nel 2018 e nel 2019. In sostanza ci sono voluti due anni per digerire la nuova normativa.

E poi anche quando le risorse destinate alle opere pubbliche crescono, i risultati in termini di lavori si vedono poco: abbiamo una macchina amministrativa che non riesce a spendere, come se ci fosse un tetto alla sua capacità di tradurre i programmi in opere funzionanti.

Ogni volta che modifichiamo tutto incidiamo sulla capacità operativa del sistema. Un esempio è il Superbonus al 110%, una norma con grandi potenzialità, ma che per ora ha prodotto un rallentamento delle attività. I risultati li vedremo nel 2021. Intanto con i vecchi Bonus (50% e 65%) nel 2019 erano stati attivati 29 miliardi di euro di lavori, quest’anno si registrerà un calo”. E non solo per il Covid.