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Coronavirus Lombardia, trasporti: distanze impossibili. Rischio caos: «Divieti ingestibili in treno»

Photo credit: Corriere della Sera

(come riportato da Maurizio Giannattasio e Stefano Landi su Il Corriere della Sera)

Lettera delle aziende pubbliche al ministro: misure ingestibili, allarme per le code. «Si punti sulle mascherine, no al distanziamento in carrozza»

Sintesi brutale: no al distanziamento di un metro, è sufficiente la mascherina, altrimenti diventa impossibile soddisfare l’esigenza di trasporto pubblico che sarà comunque superiore al 25-30 per cento imposto dal metro di distanza.

Sintesi ragionata: con il distanziamento di un metro la capacità del trasporto pubblico si attesta al 25-30 per cento, ma la domanda di mobilità – non il 4 maggio, magari neanche il 18, ma quasi sicuramente quando riprenderanno tutte le attività a settembre – sarà di molto superiore, magari arriverà al 50 per cento e il distanziamento di un metro non solo non garantirà la richiesta di trasporto ma rischia di creare assembramenti nelle stazioni e nelle fermate di bus e tram pericolosi per la salute.

Si alza la voce delle aziende del trasporto pubblico. Agens con il presidente Arrigo Giana – che tra l’altro è il dg di Atm – e Asstra con Andrea Gibelli – presidente di Ferrovie Nord Milano – hanno scritto una lettera al ministro dei Trasporti, Paola De Micheli chiedendo di rivedere le regole di accesso al trasporto pubblico. «Riteniamo -scrivono Giana e Gibelli – che l’introduzione di un criterio di funzionamento del trasporto pubblico fondato sul distanziamento di un metro debba lasciare il passo a un criterio incardinato sull’obbligo di utilizzo delle mascherine da parte degli utenti, rigorosamente applicato».

Quella dei presidenti, che raccolgono le più grandi aziende di trasporto del Paese, non è una vox clamans nel deserto. Analogo appello è arrivato dal segretario mondiale delle associazioni di trasporto (Uitp) Mohamed Mezghani: «La distanza fisica nel trasporto pubblico può significare la fine della mobilità sostenibile».

«Da parte nostra nessuna polemica – dice Giana – Il tema è la domanda di trasporto. O viene veramente rimodulata al ribasso con tutti gli strumenti a disposizione come lo smart working o la didattica a distanza o c’è un problema che bisogna affrontare. Anche perché non è che si può trasferire il problema fuori dai tornelli del metrò.

Non è pensabile che le città, penso a Milano, siano in grado di “recuperare” le 300 mila auto delle persone che non potranno utilizzare il trasporto pubblico. C’è un limite fisico invalicabile. Il ragionamento vale per tutti, Roma, Genova, Napoli, Bologna, Firenze».

La soluzione potrebbe essere quella di «eliminare» la regola del distanziamento di un metro. Con tutte le precauzione del caso. «Stiamo semplicemente chiedendo, visto che a oggi si è parlato in termini di o-o, o mascherina o distanziamento di un metro, se sia possibile valutare la possibilità di tutelare la salute dei passeggeri con la sola mascherina – continua Giana – togliendo il distanziamento.

Questo renderebbe possibile una capienza fino al 50 per cento del trasporto garantendo un’offerta più in linea alla richiesta futura. Se non sarà possibile, bisognerà lavorare per ridurre la domanda in maniera forte». Pena «il sovraffollamento delle aree di attesa delle stazioni e alle fermate, ottenendo un effetto contrario a quello desiderato – si legge nella lettera – Assembramenti non controllabili e pericolosi per la salute delle persone e addirittura potenziali problemi di ordine pubblico». Non c ‘è solo l’appello delle aziende del Tpl.

C’è anche il piano della Regione per la Fase 2 che ruota intorno alle fasce orarie. «Non si può pensare che la gente si blocchi agli accessi – dice il governatore Fontana – dobbiamo diminuire il flusso, allungando la giornata, spalmando il turnover non più su 5 giorni, ma su 7 lavorativi». Il concetto da eliminare è quello dell’ora di punta, un grande classico delle metropoli.

Il tema dei trasporti è probabilmente il più pesante nel dossier che lunedì sera Fontana ha messo nelle mani del premier Conte nell’ora e mezzo di incontro in Prefettura con la testa immersa nei grafici. In Lombardia vivono 10 milioni di persone, il 17 per cento dell’intero Paese. Ci sono 420 abitanti per chilometro quadrato, il doppio della media italiana. E il cuore di tutto resta Milano, dove si convive con l’onda lunga del virus.

Il 50 per cento degli addetti è impiegato nella sola provincia di Milano, che ha anche il 38 per cento di imprese. Ma c’è un grafico che Fontana tiene in punta di mani: ci sono quattro colonne colorate che partono dal rosso e scendono con arancione e giallo fino verde.

Quella tabella mostra come il 49 per cento delle imprese lombarde ha un basso fattore intrinseco di rischio. Una percentuale distribuita in modo omogeneo nelle diverse province: con un picco che arriva fino al 54 per cento a Lecco. Conte ha promesso che su quel fronte farà i suoi calcoli. La Fase 2 sarà quella della convivenza col virus.

«Non possiamo aspettare che scompaia, il reciproco rispetto sarà la chiave di tutto», aggiunge Fontana. A rendere ottimisti i vertici del Pirellone è il fatto che a Milano sono già tante le imprese attive. A oggi nell’intera Lombardia lavora già il 57 per cento. Il 4 maggio ripartirà un altro 23, lasciando sospeso solo il 19 per cento.

A Milano ripartiranno 103 imprese. C’è un altro dato che spiega come verrà spalmata e quindi gestita la Fase 2: dei 940 mila addetti che torneranno in servizio, il 22 per cento potrebbe restare in smart working e per un altro 10, la quota di over 60, si potrebbero trovare altre misure ad hoc.