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Concessione regalo, zero controlli: tutte le colpe dello Stato su Aspi

(come riportato da Sergio Rizzo su La Repubblica)

Il problema sarebbe che lo Stato italiano si è sempre dimostrato “debole con i forti”. Mentre ora, “finalmente”, il medesimo Stato italiano è “forte con i forti”. Questo a sentire il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, ai microfoni del suo Tg1, dopo il Consiglio dei ministri che avrebbe in prospettiva estromesso la famiglia Benetton dalle Autostrade.

Una trasfigurazione davvero sorprendente. Anche se, a ben vedere, nel caso delle autostrade la debolezza congenita dello Stato nei confronti dei “forti”, che comunque è un dato di fatto, c’entra fino a un certo punto.

Perché quello che è successo, dalla privatizzazione del 1999 con la creazione di enormi e ingiustificate rendite di posizione e fino al crollo del viadotto Morandi, è frutto di scelte politiche precise, fatte a monte dai partiti e dai leader politici, che a valle hanno determinato le colpevoli negligenze degli apparati statali.

Questa è la semplice verità. E nonostante sia evidente che nessuno chiederà mai alla politica e alle burocrazie pubbliche conto di responsabilità da condividere in pieno con il concessionario, ciò non toglie che sia arrivato il momento di metterle in fila.

Le tappe

Si comincia nel 1998, quando il governo Prodi decide che le privatizzazioni sono un passaggio fondamentale per entrare nella moneta unica. Non soltanto per gli effetti benefici sul debito pubblico, ma come segnale politico verso Bruxelles, importante soprattutto per una parte della maggioranza, quella dei Ds eredi del Pci, che finalmente al governo si devono liberare del pregiudizio storico di ostilità verso il mercato.

Le privatizzazioni, naturalmente accompagnate alle liberalizzazioni, vengono quindi adottate dalla sinistra che ne diventa la principale sostenitrice. Ecco il contesto politico in cui matura la privatizzazione della società Autostrade.

Per rendere più appetibile al mercato la privatizzazione, viene prolungata di vent’anni la scadenza della concessione: dal 2018 al 2038. Ma nell’autunno del 1998 Prodi è disarcionato dai suoi alleati e il testimone passa a Massimo D’Alema, il primo ex comunista nella stanza dei bottoni. Ed è con il suo governo che la cosa si conclude.

Ad aprile 1999, quando siamo ancora ai preliminari del collocamento di Autostrade, il sottosegretario ai Trasporti dei Ds Antonio Bargone traccia la linea: “A questo punto sono state individuate chiare prospettive reddituali, i conti economici dell’azienda vanno bene, per cui è urgente dismettere le quote di proprietà pubblica”. Così sarà.

Entro la fine del 1999, con D’Alema ancora al governo, il gruppo Benetton conquista il controllo di Autostrade. E mentre il sottosegretario Ds Bargone sollecita pubblicamente la privatizzazione della concessionaria pubblica, è già in atto la scalata a Telecom Italia della cordata guidata da Roberto Colaninno, sotto lo sguardo benevolo dello stesso governo D’Alema. Tanto da far ipotizzare che fra le due operazioni corra un filo rosso. Un filo intorno al quale saldare un blocco di potere economico in grado di contrapporsi al vecchio salotto buono di Mediobanca.

Un nuovo e più moderno salotto, con i protagonisti delle privatizzazioni gestite dai governi di centrosinistra e i santuari finanziari vicini alla sinistra, dall’Unipol al Monte dei Paschi. Se questo disegno sia mai esistito – forse era solo nella testa di qualche politico – di sicuro non si è mai concretizzato. E poi i Benetton, va detto, non sono mai stati organici alla sinistra: nessuna forza politica, a parte i grillini dopo il crollo del ponte, li ha mai osteggiati.

Restano oggi soltanto le orme di un rapporto a tratti idilliaco fra privatizzatori e privati. Per citarne una dalla discutibile estetica è dal lontano 2003 (ma con l’ingresso nel cda nel 2002, cioè 18 anni fa) che la società dell’autostrada Livorno-Civitavecchia, controllata dal gruppo Autostrade per l’Italia, è presieduta da Antonio Bargone, il sottosegretario diessino che nel 1999 tanto si era impegnato per una privatizzazione così anomala.

Perché anomala? Le autostrade sono un monopolio naturale, come tutte le reti. Consegnarle a un unico soggetto, in mancanza di un’Autorità di controllo che allora non esisteva, poteva significare trasformare il monopolio pubblico in monopolio privato, con tutti i rischi del caso. Come poi è accaduto.

Vero è che esistevano già allora concessionari privati, ma nessuno aveva una porzione tanto grande della rete. Senza considerare che l’ingresso delle Autostrade nella compagine dei concessionari privati ebbe anche l’effetto di rendere quella lobby ancora più potente. Dimostrazione, da allora l’unico settore dei servizi pubblici che ogni 1° gennaio ha ottenuto dal governo l’aumento delle tariffe senza battere ciglio è quello delle autostrade.

Il risultato è che dal momento della privatizzazione a oggi i pedaggi sono saliti di oltre il 75% a fronte di un’inflazione del 38%. Con profitti che di anno in anno andavano in orbita, tanto che dal 2000 al 2019, nei vent’anni di controllo Benetton, la concessionaria ha accumulato utili di poco inferiori ai 13 miliardi in valuta 2020, a fronte dei 3,6 miliardi scarsi (sempre in valuta attuale) spesi per comprare la partecipazione a fine 1999.

E questo grazie a trattamenti già scandalosamente favorevoli, resi ancora più favorevoli all’epoca del secondo governo Prodi. La ragione? Secondo il professor Marco Ponti, uno fra i maggiori esperti dei trasporti, sta nel fatto che ci guadagna anche lo Stato: più profitti fanno i concessionari, più tasse pagano.

Ma non può essere soltanto questa la spiegazione. I contratti prevedevano un rendimento garantito, senza l’applicazione del price cap: si tratta del meccanismo che regola in tutto il mondo le tariffe dei servizi privatizzati, in base al quale il prezzo cala al crescere della produttività.

Qui, al contrario, il prezzo saliva sempre. I concessionari autostradali avevano l’obbligo di presentare i piani di investimento, senza però l’obbligo di rispettarli. Gli aumenti delle tariffe venivano regolarmente concessi sugli impegni di lavori e manutenzioni scritti sulla carta, anche se quei lavori e quelle manutenzioni poi non si facevano.

Un rapporto dell’Anticorruzione ha rivelato che quasi nessun concessionario ha rispettato per vent’anni le promesse di investimento formulate nei piani finanziari. Senza alcuna sanzione.
Per di più, i controlli sono sempre stati a dir poco carenti. A un certo punto il ruolo del concedente è passato per decisione politica dall’Anas al ministero delle Infrastrutture. Il che ha reso i controlli, da scarsi che erano, a quasi inesistenti.

La nascita dell’Autorità

Non bastasse, quando sette anni fa è finalmente nata l’Autorità di regolazione dei trasporti, dopo due anni di gestazione, saltò fuori con sorpresa di pochi che non poteva mettere bocca sulle concessioni autostradali in essere, ma solo su quelle future. Quindi, era totalmente fuori gioco. E questo perché l’aveva deciso il Parlamento durante la conversione in legge del cosiddetto decreto “Salva Italia” del governo Monti che aveva istituito quell’Authority. Per consentire all’autorità del Trasporti di controllare, ci sono voluti 43 morti e il crollo del viadotto Morandi: diversamente nulla sarebbe cambiato. Nemmeno con i due governi Conte.

Così come è chiaro che sotto traccia il vecchio adagio continua, senza troppi problemi. Basta vedere cos’è accaduto recentemente con la revisione delle concessioni per le autostrade Asti-Cuneo e Torino-Milano, gestite dal gruppo Gavio. Il ministero delle Infrastrutture ha bollinato senza fare una piega i nuovi piani finanziari, aggirando pure il previsto giudizio dell’Unione europea.

E li ha bollinati riconoscendo un valore di subentro, cioè la somma che l’eventuale nuovo concessionario dovrebbe pagare al vecchio come indennizzo al momento di prendere il suo posto, pari a 1 miliardo 232 milioni: uno sproposito. Uno sproposito già evidenziato dalla Corte dei conti e che secondo l’autorità dei Trasporti potrebbe avere un effetto “del tutto simile a una proroga della concessione, atteso che la sua rilevanza può rappresentare una barriera all’ingresso di nuovi operatori”. E questo sarebbe lo Stato “forte con i forti”?