Condividi, , Google Plus, LinkedIn,

Stampa

Bonomi (Confindustria): «Il governo è fermo alla fase uno. Subito una riforma del lavoro»

Photo credit: Corriere Web

«Si fa un gran parlare di come utilizzare i 209 miliardi che arriveranno dall’Europa. Ma le riforme necessarie per riuscire a spendere in modo efficace queste risorse, a oggi, non sono state nemmeno impostate.

A partire da quella del lavoro, la più urgente. E poi fisco e burocrazia. La verità è che per il governo la fase 2 non è ancora iniziata». I 209 miliardi di euro che l’Italia è riuscita a strappare all’Europa non hanno fatto ricredere il presidente di Confindustria Carlo Bonomi: «Il governo al momento è ancora troppo attendista». Bene l’arrivo dei fondi, certo.

Ma il presidente di viale dell’Astronomia vede l’esecutivo esitante davanti alla prova della verità: saper spendere i fondi per modernizzare il Paese.

I 209 miliardi sono comunque un risultato. Il merito è più di Conte o della coppia Merkel-Macron?
«Per una serie di interessi tutti hanno contribuito a un equilibrio positivo. Adesso però non abbiamo scuse, tocca a noi fare i compiti in casa».

Intende fare le riforme?
«Certo. Mi sarei aspettato di vedere già scritto il Piano nazionale delle riforme, mentre il comitato interministeriale per gli affari europei, che dovrebbe redigerlo, comincia solo oggi a lavorare. Si continua a parlare dei fondi che arriveranno dall’Europa pensando che risolveranno tutti i nostri problemi».

Non è così?
«Prima di tutto ricordiamo che le risorse a fondo perduto ammontano a 80 miliardi quando l’Italia contribuisce con 55. Questo comporta un saldo netto a nostro favore di 25 miliardi. Che sono tantissimi, sia chiaro. Poi ci sono i prestiti agevolati che porteremo a casa in funzione dei progetti che sapremo presentare. E qui l’esperienza ci dice che l’Italia non è stata in grado già in passato di spendere quanto ci veniva accordato. D’ora in avanti non potremo confondere l’Europa con task force e stati generali. Bisogna agire».

Quali le tre riforme che vorrebbe leggere per prime nel piano del governo?
«Fisco e burocrazia. Si tratta di riforme per cui non è necessario mobilitare risorse. Ma sono fondamentali, senza di esse non saremo in grado di correggere le storture che ci hanno relegato tra gli ultimi Paesi in Europa per crescita e produttività. Ma la prima è quella del lavoro».

Il governo ha creato un comitato per mettere a punto la riforma degli ammortizzatori sociali.
«Ecco, vede, siamo alle solite, un comitato… La situazione che abbiamo in campo è chiara a tutti. Per quanto ci riguarda abbiamo presentato la nostra proposta al governo. Non è il momento dello studio ma delle decisioni. Anche nel merito poi si sta andando nella direzione sbagliata».

In che senso?
«Su 100 euro spesi per il lavoro l’Italia ne mette 98 per le politiche passive e 2 per quelle attive. Ma non c’è alcuna intenzione di mettere mano a questa situazione. Anzi: si vara uno scostamento di bilancio da 25 miliardi per distribuire altre risorse a pioggia».

Non si può abbandonare chi resta senza lavoro.
«Nessuno vuole abbandonare chi è in difficoltà. Al contrario, si tratta di introdurre soluzioni efficaci perché il sistema attuale evidentemente non funziona. Tiene tutti fermi al lavoro dov’era e com’era, invece di formare e riorientare al lavoro nuovo».

La vostra proposta?
«Si tratterebbe di distinguere le crisi tra quelle reversibili, da gestire con una Naspi riformata. Attenzione: in questo caso però l’assegno andrebbe subordinato all’esercizio della condizionalità: se mentre percepisci la disoccupazione rifiuti un posto di lavoro perdi il contributo. Dove invece ci sono crisi strutturali e quindi irreversibili ha senso usare la cassa integrazione. Non innumerevoli tipi di cassa come oggi, però: uno soltanto. Le imprese sprecano troppo tempo ed energie con un sistema complicatissimo».

Ha senso in questa crisi parlare di politiche attive del lavoro se il lavoro non c’è?
«Certo che ha senso, vogliamo fare di tutto per creare il lavoro e comunque è assurdo che per quello che c’è non si trovino le persone giuste. Dobbiamo mettere in campo una riforma delle politiche attive che offra a tutti i disoccupati l’assegno di ricollocazione e non solo a chi ha il reddito di cittadinanza. Abbiamo proposto di mettere in campo in questa direzione i fondi interprofessionali. E poi l’Anpal pubblica deve collaborare con le agenzie del lavoro private».

Sul modello di quanto avviene in Lombardia?
«Per esempio».

Scusi, ma di recente lei ha auspicato una «democrazia negoziale», dove la politica non agisce senza ascoltare le parti sociali. Eppure, dopo il patto della fabbrica il confronto con Cgil, Cisl e Uil non ha prodotto nulla.
«Non certo per nostra responsabilità. Sono stati i confederali a interrompere il confronto. In certi momenti è come se Confindustria avesse sulle spalle, da sola, la tutela di persone e lavoro. Noi siamo convinti che buone relazioni industriali siano fondamentali per il Paese».

Il sindacato chiede di prolungare il blocco dei licenziamenti.
«Più tardi verrà eliminato e peggiore sarà l’impatto».

Il governo però vuole introdurre la decontribuzione per chi assume.
«Non scherziamo. Lei vede qualcuno oggi interessato ad assumere se col divieto di licenziamenti non può ristrutturare? Al danno dell’impianto attuale degli ammortizzatori si aggiunge la beffa».

Ai sindacati non va giù che Confindustria tergiversi sul rinnovo dei contratti.
«Rinnovando i contratti come si è sempre fatto agganciando le retribuzioni all’inflazione in alcuni casi dovrebbero essere i dipendenti a restituire parte degli aumenti. I contratti vanno rinnovati introducendo parametri adeguati al contesto, la produttività in primis. E comunque gli aumenti dovrebbero essere dati a livello aziendale».

La contrattazione aziendale non è mai decollata.
«In realtà è molto più presente di quanto non si dica. La strada è questa».

Confindustria ha criticato l’interventismo statale. Ma, a partire dall’Ilva, mancano all’appello imprese private che si facciano avanti.
«Per la verità proprio nel caso di Ilva un’impresa privata c’era, i Riva, che sono stati estromessi. Comunque, in generale, quello che ci preoccupa non è l’ingresso dello Stato in una fase di crisi come questa. A due condizioni però: che sia temporaneo e che si lasci la gestione ai privati».

Chiede sempre l’eliminazione dell’Irap?
«Certo».

Ma qualcuno le tasse dovrà pur pagarle, altrimenti lo Stato sociale non regge.
«La pressione fiscale sulle imprese è altissima, e togliendo l’Irap si premia chi assolve con lealtà al patto con lo Stato pagando le tasse.

Con la Francia, siamo ai vertici mondiali del cuneo fiscale a carico delle imprese. Sento ripetere che la prima cosa è perseguire una seria lotta all’evasione fiscale. Abbiamo combattuto per avere la fatturazione elettronica, che poi si è dimostrata uno strumento utile in questa direzione.

Tranne il fatto che poi lo Stato si tiene comunque lo split payment e drena risorse dai suoi fornitori anche dopo la fatturazione elettronica. Se il governo deciderà di imboccare seriamente la strada della lotta all’evasione ci avrà dalla sua parte».