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Il Sud che non vuole morire

Photo credit: GDS.it

(come riportato da Sergio Rizzo su La Repubblica)

La Palermo-Catania bloccata da 56 mesi dopo un crollo, da 32 anni la Catania-Ragusa. Infrastrutture al collasso e mancanza di lavoro spopolano il Mezzogiorno: 300 mila abitanti in meno nel quadriennio

 Sfilavano in parata ministri, sottosegretari, governatori, onorevoli, sindaci e presidenti della rispettabile azienda pubblica strade. Con le facce serie e l’aria solenne, sfilavano. Ognuno a promettere che avrebbero fatto in fretta, più in fretta possibile.

Ognuno a rassicurare che ricostruire i 270 metri del viadotto Himera era un’assoluta priorità perché non si poteva lasciare la Sicilia, già ampiamente mortificata da strade del Terzo mondo, con la Palermo-Catania mozzata dal cedimento di un pilone. Era la notte fra l’8 e il 9 aprile 2015 quando quel pilone fece crac.

Un mese dopo il premier Matteo Renzi annunciava: “Abbiamo approvato la delibera che stanzia le risorse per l’emergenza del viadotto siciliano”. Mentre l’Anas comunicava che era tutto pronto per le demolizioni e che una volta terminate quelle, sarebbero bastati 15 mesi per la ricostruzione. Al massimo 18.

“Non siamo messi male”
Dopo 34 mesi, invece, non avevano ancora nemmeno aggiudicato i lavori. E di mesi, da quel maledetto aprile 2015, ne sono già trascorsi fra una sfilata e l’altra ben 56 e siamo ancora a carissimo amico. L’ultimo a sfilare è stato, quasi un anno fa, l’ex ministro delle Infrastrutture grillino Danilo Toninelli.

Che dopo aver rivelato “lo Stato è tornato, la Sicilia è tra le massime priorità per questo governo”, ha chiesto ai dirigenti dell’Anas presenti alla quando avrebbero riaperto il traffico su quella carreggiata della Palermo-Catania sentendosi rispondere: “Pensiamo entro la fine del 2019”. Con l’aggiunta della seguente strepitosa considerazione: “Non siamo messi male”.

Non siamo messi male? Certo, in Sicilia c’è di peggio. La Catania-Ragusa, esempio, aspetta da almeno 32 anni. Per non parlare delle 160 opere incompiute, qualcuna anche dagli anni Cinquanta.

Ma a maggior ragione quella frase, pronunciata nel 2018 da un pubblico funzionario, non può non indignare. E ci s’indigna ancora di più dopo aver letto ciò che ha raccontato su Repubblica il nostro Antonio Fraschilla, denunciando che sperare in una riapertura prima dell’estate 2020 è impossibile. Ora c’è il problema del ferro: la ditta fornitrice è finita in concordato.

Ma dice tutto, quella frase, soprattutto sulla “distanza della Sicilia dal resto del Paese”, come denuncia la Cisl ricordando che mentre il viadotto Himera è fermo “a Genova stanno per partire i lavori per il ponte Morandi”. Anche se la Sicilia è soltanto una parte di un problema molto più grande, che si chiama Meridione. Il Sud sta morendo e al suo capezzale non c’è nessuno. Nessuno si rende conto che con il Sud muore anche l’Italia.

Di fronte alla più devastante e pericolosa emergenza del Paese la politica è paralizzata, la classe dirigente indifferente, il ceto intellettuale cloroformizzato, l’opinione pubblica assente. Come in attesa dell’inevitabile. I governi di turno si rifugiano in vuote e stantie ricette di “piani straordinari”, rispolverando palliativi ormai mitologici come l’inutile Banca del Mezzogiorno, che peraltro esiste da anni senza aver cambiato di una virgola i destini del Sud.

La criminalità conquista territori, ammorbando pure aree un tempo non contaminate da quel cancro, come il foggiano. Mentre per i partiti, sempre più lontani dalla realtà, quelle Regioni sono appena bacini di consenso elettorale da amministrare con il solito metodo osceno: il clientelismo.

Come ai tempi della “spagnola”
E intanto la gente scappa. Nei soli ultimi quattro anni, da quando la crisi avrebbe dovuto in teoria allentare la morsa, il Sud ha perso 307.748 abitanti. Significa che il 70 per cento del calo dei residenti registrato nell’intera nazione dal gennaio 2015 al gennaio 2019, pari complessivamente a 436.866 unità, è imputabile a poco più di un terzo del Paese. In un’Italia che perde abitanti, il Mezzogiorno si sta letteralmente spopolando. Con la desertificazione demografica che aggredisce ormai in profondità i centri urbani.

La Sicilia è scesa sotto la soglia dei cinque milioni: oggi ha 4.999.891 abitanti. Da Palermo, in quattro anni, sono sparite 15.091 persone. Da Messina, 7.859. Da Catania, 4.017. Da Bari, 6.499. Da Taranto, 5.314. Da Napoli, addirittura 19.211. Fra il 2015 e il 2019 la popolazione dei 39 capoluoghi di provincia meridionali si è ridotta di ben 84.628 unità: solo quattro di queste città sono state risparmiate.

Il calo demografico, si dice, è figlio dei tempi. Non c’è un partito che non dica di voler favorire le famiglie, poi però all’atto pratico si fa esattamente il contrario. Infatti il calo demografico c’è anche al Nord. Ma in proporzioni completamente diverse. Dal 2012 al Sud il numero dei morti supera costantemente quello dei nati vivi. Prima di allora era accaduto nella storia in sole due occasioni: nel 1867, in concomitanza con una micidiale epidemia di colera, e nel 1918, l’anno della spagnola.

Le proiezioni riportate dalla Svimez, il centro studi per il Mezzogiorno diretto da Luca Bianchi sono semplicemente spaventose. Da qui al 2065 l’Italia avrà perduto il 14,9% della popolazione: 6,4 milioni di abitanti. Ma quasi l’80% di questo calo, pari a 5 milioni di persone, avverrà al Sud. La sola Campania perderà un numero di residenti paragonabile a quello dell’intero Centro-Nord: 1,4 milioni. La Puglia scenderà a tre milioni di abitanti. La Basilicata ne perderà il 34%. La Sardegna addirittura il 40%.

Nei piccoli centri di montagna al Sud già oggi il rapporto fra gli over 65 e under 14 è di 3,12 a uno: contro il 2,51 a uno del Centro Nord. Non si fanno più figli e scappano i giovani, soprattutto quelli istruiti e formati nelle università meridionali.

Recidono per sempre il cordone ombelicale: non come negli anni Cinquanta quando i meridionali emigrati al Nord mandavano il denaro al Paese, e poi tornavano a costruirsi la casa con i risparmi di una vita di lavoro. L’Istat ha calcolato che negli ultimi dieci anni circa 250 mila giovani “con livello di istruzione medio alto” hanno lasciato il Mezzogiorno. Ben 226 mila soltanto da Campania, Sicilia, Puglia e Calabria.

Le donne di Crotone
La prima ragione della fuga è la stessa di sempre: non c’è lavoro. La disoccupazione giovanile dai 15 ai 29 anni è a livelli inimmaginabili per un Paese civile. Se dal 2004 al 2018 è passata a Milano dal 10,2 al 16,6% e a Roma dal 18,9 al 24,6, nella città di Napoli è balzata dal 34,8 al 50,4. A Isernia, dal 22,7 al 51,2.

Ad Agrigento, dal 45,3 al 53,9. E alle giovani donne va decisamente peggio. Sono senza lavoro il 51,4% a Caltanissetta, il 52,5 a Messina, il 56,5 a Enna, il 58 a Napoli, il 63,2 a Crotone. Tassi di disoccupazione in certi casi superiori a quelli che si registrano nelle colonie francesi, come la Guyana o Reunion, oppure a Melilla, enclave spagnola in Marocco.

A testimoniare ancor di più, se mai ce ne fosse bisogno, il fallimento assoluto di tutti i modelli di sviluppo con prevalenza di logiche assistenziali applicati al Sud nel secondo dopoguerra, ecco i dati Svimez sul divario economico fra le due Italie.

Nel 2018 il prodotto interno lordo di un cittadino meridionale era di 18.954,5 euro, ovvero il 55,2 per cento di quello di un italiano residente nel Centro-Nord: 34.311 euro.

Nel 1953, cioè 65 anni prima, il rapporto era del 55,3 per cento. Pressoché identico In sei decenni e mezzo il pil procapite del Sud ha raggiunto il 60% del resto del Paese in sole due occasioni, nel 1971 e nel 1973. Si è tornati quindi all’inizio degli anni Cinquanta. Ma se l’Italia è ferma, il Mezzogiorno addirittura arretra.

Lo dicono con chiarezza i conti economici territoriali, secondo cui il peso del prodotto interno lordo delle Regioni meridionali sul totale italiano è sceso progressivamente e in modo inesorabile dal 24,7 per cento del 2000 al 22,7 del 2017.

Senza treni
E dopo il lavoro che manca, l’altra ragione di fuga è la qualità della vita. I servizi sono pessimi, comunque inferiori a quelli del resto d’Italia. Si vede bene, tranne qualche caso di eccellenza, nella sanità: dove circa un miliardo l’anno di tasse pagate al Sud serve per curare cittadini meridionali nelle strutture del Centro Nord. Ma si vede forse ancora meglio nella gestione folle del ciclo dei rifiuti, dove le contaminazioni criminali sono profonde, oppure nella situazione drammatica di certi trasporti pubblici locali.

Quanto alle infrastrutture, su quelle c’è solo da stendere un velo pietoso. I dati riportati dalla Svimez fanno venire i nervi. La dotazione delle Regioni meridionali rispetto alla media dell’Unione europea a 28, che comprende quindi anche i Paesi dell’ex blocco sovietico, oscilla dal modestissimo 73,7% della Campania al 36,9 della Calabria, al 31,5 della Basilicata, al 29,8 della Sicilia, per arrivare al 19,9 per cento della Sardegna.

Per avere un’idea di cosa possono significare questi numeri, nella graduatoria infrastrutturale europea la Lombardia è a quota 124,7 e l’Emilia-Romagna a 122,1. Tuttavia è perfino inutile stupirsi. L’alta velocità si interrompe a Salerno e i treni veloci diretti al Sud sono rari come le mosche bianche.

Da Roma a Reggio Calabria e da Roma a Lecce ci sono rispettivamente appena quattro e tre corse dirette con treni freccia al giorno; da Roma a Milano, invece, 53 frecce più 51 Italo al giorno.

Per un totale di 104 (centoquattro) collegamenti rapidi. Del resto, sull’impegno dello stato centrale nei confronti delle infrastrutture meridionale dice tutto un’occhiata ai dati della spesa pubblica per investimenti al Sud.

Ridotta nel 2017 ad appena 10,6 miliardi al termine di una discesa a precipizio dai 22,6 miliardi del 2000. Per di più con un crollo dal 39% al 33,8% dell’incidenza sull’intera spesa pubblica statale in conto capitale.

Il bello è poi che di quella somma ben 6,9 miliardi riguardano i finanziamenti ordinari e appena 3,7 i cosiddetti “aggiuntivi”. Di questi, i fondi europei non superano 400 milioni. E qui c’è la vera piaga.

Peperoncino festival
I soldi per quello che si chiamava l’intervento straordinario, cominciato con la Cassa del Mezzogiorno, sono finiti da almeno vent’anni. La Svimez ha calcolato che dal 1951 al 1998, in 47 anni, lo Stato ha riversato nelle Regioni meridionali l’equivalente di 220 miliardi di euro in valuta 2008.

Molti denari sono evaporati in opere non finite, sprechi, iniziative inutili e anche ruberie. Si può certo discutere circa l’entità di questo investimento, ma se è vero che il Pil procapite del Sud è passato dal 52,6 per cento di quello del Centro Nord nel 1951 al 56 per cento nel 1998, con un miglioramento irrilevante, probabilmente bisognava fare di più.

Secondo il calcolo di Gaetano Stornaiuolo per la riunificazione della Germania l’Ovest ha impiegato nei lander orientali, aree di grandezza paragonabile a quella del nostro Meridione (108 mila chilometri quadrati contro 123 mila), 361 miliardi di euro. Oltre 18 miliardi l’anno in media, il quadruplo dell’intervento straordinario nel Sud Italia. Altri tempi. Ormai i fondi europei rimangono l’unica risorsa reale per rilanciare lo sviluppo.

Bisognerebbe però utilizzarli per quello, anziché finanziare iniziative come il Peperoncino festival/ Vacanze piccanti nel Tirreno cosentino, o il Bongo Market di Acquedolci nel messinese, oppure pagare le hostess di un convegno sulle frodi comunitarie (!), o addirittura sponsorizzare la nazionale italiana di calcio, come fece la Regione Calabria una decina d’anni fa.

I fondi strutturali, come si chiamano, sono stati istituiti per ridurre le differenze fra le zone più ricche e quelle meno prospere dell’Unione. L’hanno capito bene i portoghesi, che hanno superato di slancio per tassi di crescita il Meridione d’Italia. E l’hanno capito forse ancora meglio i polacchi, i bulgari, gli sloveni… Ci fanno le strade, gli impianti di depurazione, i ponti, le ferrovie.

Noi invece in prevalenza li sbricioliamo, distribuendoli spesso e volentieri con il solito sistema clientelare. Sempre che poi le Regioni, a cui sono attribuiti poteri discrezionali assoluti, riescano a spenderli. Cadono le braccia a leggere la tabellina della Svimez che spiega quanti ne stiamo utilizzando.

La spesa certificata al 31 luglio 2018 nei Programmi operativi regionali sui fondi strutturali 2014-2020, cioè a due anni e mezzo dalla fine del piano, oscillava dal 9,44 per cento della Puglia a uno 0,73 per cento della Sicilia. Su 5 miliardi e 378 milioni disponibili le strutture isolane erano riuscite a spendere 39 milioni e 370 mila euro.

La retorica del piano straordinario
Comprensibile che il nuovo ministro del Sud Giuseppe Provenzano, proveniente dalla Svimez di cui era vicedirettore (finalmente uno che ci capisce, verrebbe da dire…), immagini di partire da qua dopo aver ripudiato la vuota retorica del “piano straordinario”. Ma è un’impresa da far tremare le vene ai polsi.

Come si potranno mettere in riga Regioni inefficienti, costringendole a fare progetti seri evitando certe sconcezze del passato? Il problema, a dire la verità, se l’era già posto Fabrizio Barca ai tempi del governo Monti.

Il suo successore Carlo Trigilia, con Enrico Letta a palazzo Chigi, aveva creato l’Agenzia per la coesione che avrebbe dovuto appunto sovrintendere e coordinare il lavoro delle Regioni. Non avendo però alcun potere concreto, da quando è nata oltre cinque anni fa si limita ad agire da notaio. Con 219 dipendenti.

Partire dai fondi europei significa intervenire su questo fronte. Prima possibile. Il minimo sindacale è una struttura pubblica, dotata di competenze consistenti e di riconosciuta indipendenza che abbia il ruolo e l’autorevolezza per mettere ordine in questo indicibile caos.

Magari la stessa Agenzia di cui stiamo parlando, debitamente rafforzata con l’attribuzione di poteri sostitutivi capaci di impedire certe follie superando anche le inerzie burocratiche delle Regioni. Ma avranno il coraggio, e la forza, di arrivare a questo?

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