Nel secondo trimestre le probabilità di una nuova contrazione del Pil sono al 65%. La stima “relativamente elevata” è contenuta nel Rapporto annuale dell’Istat, illustrato questa mattina in Parlamento dal presidente Gian Carlo Blangiardo.
Questa edizione del Rapporto, la 27esima, arriva con un mese di ritardo rispetto al calendario tradizionale e, dunque, a ridosso della chiusura del trimestre.
Inevitabile, quindi, che le ampie analisi dedicate al quadro macroeconomico contenessero la novità di una predizione qualitativa sulla congiuntura a breve, ottenuta con una procedura che permette di individuare i settori manifatturieri con caratteristiche leading rispetto al ciclo economico.
L’ombra delle produzione industriale in calo
La nuova stima non annulla la previsione Istat sull’anno, che vede un crescita dello 0,3%, in linea con quella fatta da Bankitalia il 7 giugno scorso nell’ambito del consueto esercizio coordinato dell’Eurosistema (sempre +0,3%, un valore dimezzato rispetto al +0,6% di gennaio).
L’indicatore anticipatore pubblicato mese dopo mese dall’Istat conferma che la fase di debolezza si sta allungando, e i dati della produzione industriale di aprile (-0,7% rispetto al mese precedente; -1,5% sull’anno) hanno aggiunto elementi che confermano il rischio di una nuova contrazione. Rischio rafforzato dal vero e proprio crollo, sempre in aprile della produzione industriale tedesca (-2,5%), economia con la quale l’Italia è strettamente connessa.
La previsione sull’anno resta +0,3%
Nel Rapporto si ricorda che nel 2018 la crescita del PIL in volume aveva segnato un rallentamento rispetto al 2017 (+0,9% da +1,7%), mostrando un andamento pressoché stagnante. Una dinamica su cui hanno pesato il contributo negativo della domanda estera netta e una significativa decelerazione dei consumi.
Gli investimenti lordi hanno rappresentato, invece, la componente più dinamica della domanda, con un aumento del 3,4% e un contributo alla crescita pari a 0,6 punti percentuali. Nei primi tre mesi del 2019, il PIL ha fatto solo un +0,1%, condizionato dalla modesta crescita di consumi ed esportazioni.
Gli investimenti hanno mostrato un miglioramento guidato dalle costruzioni. Dal lato dell’offerta, è mancata la spinta alla crescita del settore dei servizi mentre manifattura, costruzioni e agricoltura sono risultate in aumento.
Se la stima Istat venisse confermata a fine luglio con una variazione in negativo, potrebbe essere ritoccato anche il dato sul PIL acquisito da inizio anno, ora pari a zero.
Il crollo demografico
Fuori dall’analisi sulla congiuntura, il Rapporto dedica un ampio spazio alle prospettive demografiche, la cui incidenza sul potenziale di crescita economia è sempre più al centro del dibattito pubblico.
A livello mondiale l’Italia contende al Giappone il record di invecchiamento: 165 persone di 65 anni e più ogni 100 giovani con meno di 15 anni per l’Italia e 210 per il Giappone, al 1° gennaio 2017.
Gli scenari di previsione (in questo campo assai più solidi) indicano con un’elevata probabilità (78%) che la popolazione residente al 2050 risulterà inferiore a quella odierna, scendendo da 60,4 milioni al 1° gennaio 2019 a 60,3 milioni nel 2030.
Negli anni successivi, il calo sarebbe più accentuato (58,2 milioni la popolazione nel 2050), con una perdita complessiva di 2,2 milioni di residenti rispetto ad oggi.
La transizione nell’età anziana delle generazioni del baby boom, oggi nella fase adulta della vita, è la principale determinante del futuro invecchiamento della popolazione.
La quota di ultrasessantacinquenni sul totale della popolazione potrebbe essere nel 2050 tra i 9 e i 14 punti percentuali superiore rispetto al valore del 2018 (22,6%).
Sei milioni di attivi in meno nel 2050
Le conseguenze sono importanti per la popolazione in età attiva, che subirà un’intensa riduzione della forza lavoro potenziale. Nei prossimi anni le coorti in uscita risulteranno numericamente superiori a quelle in ingresso.
Nel 2050, la quota dei 15-64enni potrà scendere al 54,2% del totale, circa dieci punti percentuali in meno rispetto a oggi. Si tratta di oltre 6 milioni di persone in meno nella popolazione in età da lavoro.
L’Italia – si sottolinea con preoccupazione nel Rapporto – si ritroverebbe tra i pochi paesi al mondo a sperimentare una significativa riduzione della popolazione in età lavorativa.