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Infrastrutture, 20 miliardi di euro di spesa in più per arrivare al 3% di cui parla Tria

Riportiamo integralmente una riflessione attenta di Giorgio Santilli apparsa su Edilizia e Territorio di oggi sulla carenza di investimenti pubblici in Italia.

Per cinque anni i governi di centro-sinistra hanno promesso un’accelerazione degli investimenti pubblici che non è arrivata. Dal 2014 si è proclamato in tutte le sedi che la ripresa degli investimenti avrebbe trainato l’accelerazione del PIL ma il rapporto investimenti/PIL non ha mai superato la soglia del 2%. Non è mancato l’impegno, soprattutto nel reperire le risorse (soprattutto i 90 miliardi del nuovo fondo investimenti di Palazzo Chigi), ma i risultati concreti non si sono visti (se si fa eccezione per gli investimenti ferroviari) e a trainare la ripresa sono stati piuttosto export e investimenti privati.

Non serve, ora, appellarsi alla ripresa dei bandi di gara e proporla come ripresa di mercato: la spesa effettiva non è ancora ripartita e un altro anno si è perso. La flessibilità acquisita a Bruxelles nel 2016 (5 miliardi) è stata utilizzata per spese correnti. Ora il rischio serio è di perdere anche il 2019 e il 2020.

I litigi di Genova che frenano la ricostruzione, l’ennesima occasione di sviluppo persa con la rinuncia alle Olimpiadi 2026, anche lì per i litigi nella maggioranza, la spesa dei fondi Ue ferma al 9%, l’ennesimo esame con analisi costi-benefici di programmi di opere in corso in una infinita tela di Penelope, la sentenza della Consulta che costringe a rivedere d’intesa con le Regioni le destinazioni del «fondo investimenti», l’annuncio della riforma del codice degli appalti in una situazione di quasi-paralisi della PA sono tutti segnali che potrebbe ripetersi la storia di annunci cui non seguono fatti. Anche se bisogna attendere le prime decisioni vere – quelle della legge di bilancio e sui programmi delle grandi opere – prima di dare una valutazione compiuta.

Ieri il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, si è detto fiducioso e ha rilanciato un mantra che già è stato del suo predecessore, Pier Carlo Padoan. «Bisogna portare gli investimenti pubblici al 3% del PIL». Se a consuntivo non arriviamo al 2% mancano quasi 20 miliardi di spesa di investimenti l’anno per centrare l’obiettivo. L’Ance ha contato 300 opere per 27 miliardi che si potrebbero mettere in moto con una drastica semplificazione delle procedure. Secondo l’associazione dei costruttori riattivare 20 miliardi comporterebbe la creazione di 330mila posti di lavoro e 75 miliardi di ricadute sull’economia.

Ma a bloccare la ripresa degli investimenti pubblici – dopo un decennio di riduzione dei fondi pubblici fino al 2015 – non è stata la disponibilità di risorse, che sulla carta sono andate aumentando negli ultimi tre anni (anche grazie al nuovo «fondo investimenti») e che hanno consentito sempre a Tria di dire recentemente che ci sono già contabilizzati nel bilancio dello Stato 150miliardi spendibili.

A bloccare la ripresa degli investimenti è piuttosto il grande male italiano, con le sue due facce. La prima è una burocrazia che spreca il 54% degli abnormi tempi necessari per realizzare un’opera (mediamente 15 anni) in “tempi di attraversamento”, vale a dire una serie di innumerevoli passaggi e ostacoli creati all’epoca del consociativismo e delle politiche di rigore di bilancio per non fare più che per fare.

A stimare questi tempi è uno studio ufficiale della Presidenza del Consiglio. Veti locali quasi sempre imposti da minoranze (superabili solo con riforma del titolo V, débat public e referendum popolari), contenziosi amministrativi creati ad arte dagli esclusi, conflitti fra governo e Regioni, conflitti fra Regioni ed enti locali, valutazioni di impatto ambientali ripetute nel tempo, progetti continuamente rivisti perché inadeguati, veti delle Sovrintendenze, pianificazione debole e incerta, conferenze di servizi senza esiti definitivi (ora riformate con qualche passo avanti), ridottissima capacità di spesa anche per lo smantellamento delle strutture tecniche della PA, che continua ad avere un perimetro vastissimo senza presidiare le funzioni-chiave, incapace di controllare gli appaltatori per far rispettare prezzi e tempi e mettere alla porta quelle imprese che prima fanno ribassi elevatissimi e poi tentano di recuperare con riserve e varianti.

La seconda faccia del male italiano è l’eterna riprogrammazione anziché cercare minimi comuni denominatori che diano stabilità all’azione pubblica. Ogni maggioranza politica ha le sue priorità e le sue project review (l’ultima l’ha fatto il centro sinistra due anni fa e ora tocca alla nuova maggioranza) e gioca le infrastrutture come terreno di scontro politico, una forza politica contro l’altra, il governo contro le Regioni, dando al proprio elettorato e togliendo a quello avversario, con il risultato – questo sì un unicum italiano – che il quadro cambia, si aggiusta, vacilla, sbanda, si azzera, riparte da capo, ma resta comunque incerto nei decenni.