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Il Movimento 5 Stelle si prende l’Anas: ecco cosa succede adesso

Danilo Toninelli Dopo mesi di resistenza da ultimo guerriero giapponese nella giungla, Gianni Vittorio Armani ha capito che la guerra è finita. Il ministro delle Infrastrutture e dell’entusiasmo, Danilo Toninelli, ha twittato in puro stile Crozza: «Il vento sta cambiando. Al passato lasciamo sprechi, stipendifici e manovre meramente finanziarie. Per il futuro lavoriamo a una nuova Anas con meno gente dietro alla scrivania e più tecnici che progettano, costruiscono e mantengono sicure le nostre strade».

Mentre Toninelli elabora un modo di togliere la scrivania ai tecnici progettisti per farli disegnare direttamente in mezzo alla strada, Armani si è arreso. La sua avventura alla guida dell’Anas è durata tre anni e mezzo. I primi tre li ha passati mandando in pensione vecchi dirigenti a colpi di buonuscite da 300 mila euro netti e facendo affiggere nei corridoi della sede in via Monzambano datzebao che inneggiavano alla rivoluzione etica e culturale di una società troppo spesso alle prese con scandali, corruzione, crolli di viadotti e una difficoltà oggettiva a mettere in pratica le continue inversioni a u legislative dei vari governi.

La tempistica dovrebbe prevedere un nuovo cda nei prossimi giorni e, subito dopo la legge di bilancio, un decreto di revoca della fusione per incorporazione di Anas nel gruppo Ferrovie dello Stato, meno di un anno dopo il provvedimento del governo Gentiloni.

L’impasse non poteva continuare. Ignorato da Toninelli anche nei giorni più drammatici del viadotto Morandi, dead man walking negli ultimi incontri istituzionali, Armani ha tentato fino alla fine di traghettare la società verso lo scorporo da Fs, in assenza di altre indicazioni dal Mit. Tutto è precipitato quando Gianfranco Battisti, successore di Roberto Mazzoncini alle Fs e dunque azionista di controllo dell’Anas, ha chiesto al collega di via Monzambano di fare un passo indietro. Toninelli, impaziente di mettere le mani sulla società a controllo pubblico prima che lo facciano i leghisti, si è unito alla richiesta.

Armani non se lo è fatto ripetere. Mese più, mese meno, per lui ricco di famiglia conta poco. Semmai l’uscita prima della chiusura dell’esercizio di bilancio 2018 rappresenta un problema in più per il suo successore che dovrà firmare undici mesi di contabilità altrui. Tra i problemini di minor conto c’è la svalutazione da circa 2 miliardi di euro per patrimonio non ammortizzabile e le scorribande in Qatar e Abu Dhabi della controllata Aie (Anas international enterprise).

Il nuovo ad dovrebbe essere un interno scelto formalmente da Fs ma in realtà indicato da Toninelli. Quasi per esclusione, si è parlato di Ugo Dibennardo ma potrebbe essere una manovra per bruciarlo. L’ingegnere catanese è stato per cinque anni responsabile dell’Anas in Sicilia ed era legato a uno schieramento non proprio gradito al fronte grillino, dall’ex ministro Maurizio Lupi al democrat Giuseppe Lumia. In questo momento guida la direzione operation, strategica perché ha le manutenzioni, e sta in Anas da ben prima di Armani come Stefano Liani, direttore progettazione, che però è considerato vicino a Matteo Renzi. Un altro top manager papabile è Fulvio Soccodato, responsabile del ripristino delle strade nelle quattro regioni colpite dal sisma di Amatrice.

Chiunque arrivi troverà una struttura molto permeata da una dozzina di nomine ad alto livello fatta da Armani, dal responsabile finanza Edoardo Eminyan ad Adriana Palmigiano, alla guida della direzione appalti, quella che ha risentito di più dell’integrazione laboriosa con Fs fino a un blocco quasi completo delle gare.

In compenso, con il rientro delle strade cedute agli enti locali in nome del federalismo, l’Anas ha bisogno di personale per l’esercizio e per la sorveglianza che Toninelli pretende. Basta replicare la deroga alla legge Madia già utilizzata per assumere il personale tecnico e le strade potranno tornare a riempirsi di uomini in casacca arancio catarifrangente con il buon ritorno di consenso che nulla come un posto statale sa offrire.

Oltre a questo c’è una valanga di denaro. Soltanto in manutenzioni, a metà ottobre Armani aveva annunciato un piano quinquennale da 11 miliardi di euro. Non poco nel quadro di un’economia a crescita zero.

Generali di lotta e di governo
Per la presidenza, lasciata vacante dal docente di area democrat Ennio Cascetta, inizia a farsi strada la candidatura alla presidenza di Roberto Massi, attuale responsabile della tutela aziendale in Anas, mentre l’ipotesi Giuseppe Bonomi è stata smentita dal diretto interessato poco dopo la pubblicazione della notizia su Repubblica, a dimostrazione che l’Anas deve essere grillina e non può essere affidata all’avvocato di fiducia di Umberto Bossi.

Massi, classe 1963, è arrivato in via Monzambano con un curriculum degno di un trasporto eccezionale. Ha studiato all’accademia militare della Nunziatella come il fratello minore Franco, potente segretario generale della Corte dei conti dopo anni nello stesso ruolo al Cnel. Mentre Franco Massi faceva carriera nella Guardia di finanza, Roberto Massi ha scalato le gerarchie dell’Arma fino alla greca di generale con l’incarico di capufficio legislativo dei carabinieri nel 2014. In precedenza (2009-2011) aveva vissuto una parentesi nella politica come direttore affari generali del ministero dello sviluppo guidato da Claudio Scajola, oggi sindaco di Imperia sotto processo a Reggio Calabria, e poi da Paolo Romani.

L’uscita di Massi dall’Arma nel 2016 sarebbe dovuta, secondo quanto ha scritto Emiliano Fittipaldi sull’Espresso , a dissidi con il comandante generale Tullio Del Sette che vedeva in Massi un fedelissimo del rivale e predecessore Leonardo Gallitelli.

In questo biennio all’Anas Massi ha svolto, di fatto, un compito di intelligence rispetto alle mille tentazioni offerte da una delle maggiori stazioni appaltanti d’Italia. Per esempio, si è occupato degli strascichi interni dell’inchiesta della Procura di Roma sulla cosiddetta Dama Nera, Antonella Accroglianò, la dirigente Anas arrestata il primo ottobre 2015, quattro mesi dopo la nomina di Armani.

A ottobre è scoppiata la bomba Anas international con un’interrogazione firmata da 42 senatori grillini che ha avuto un peso fondamentale nelle dimissioni del moralizzatore Armani. Anche rispetto a documenti molto strutturati, non c’è modo di pensare che il documento parlamentare sia frutto di indagini dei firmatari. Il testo parte lancia in resta contro i troppi manager assunti da Armani, e citati per nome a eccezione di Massi. Da qui si passa a un faccendiere libanese amico di Armani, Raymond Mikhael e ad una joint-venture (Tecnositaf gulf Qatar) costituita da Sitaf (controllata Anas) nei paesi del Golfo con un partner locale i cui azionisti sono schermati «sulla base dello stesso schema utilizzato da altre grandi industrie nazionali come Eni e Saipem, oggetto di inchieste giudiziarie per corruzione internazionale».

In ballo ci sono gli appalti per i tunnel Dukhan (Qatar) e Saadiyat (Abu Dhabi) che sono stati affidati ad Anas international. «Non si conoscono», prosegue l’interrogazione, «i motivi di occultare tale partnerhip dietro alla catena di controllo di Sitaf piuttosto che utilizzare Anas international enterprise».

Il documento conclude ipotizzando violazioni al codice degli appalti e alla normativa Anac, di fatto chiedendo l’intervento della magistratura e dell’autorità diretta da Raffaele Cantone.

Fusioni giallo-verdi
Le avventure di Anas nel Golfo Persico sono un problema in più per il nuovo management. Ma non sono l’unico. Il tema più urgente è quello dell’assetto azionario della nuova Anas grillo-leghista.

Morta una fusione, quella fra Anas e Fs, se ne fa un’altra. Anzi, se ne faranno due. Una dovrebbe essere quella fra Fs e Alitalia. La seconda è l’incorporazione di Anas sotto Fintecna.

In quanto ad Alitalia-Ferrovie, molti pensavano che mettere insieme strade e binari come ha fatto il governo Gentiloni a fine 2017 fosse come mischiare acqua e olio e che non si potesse fare peggio. Si può, combinando binari e jet.

Sul matrimonio Anas-Fs i grillini sono sempre stati molto critici e, seguendo la linea di alcuni giornali come l’Espresso, avevano concluso che l’operazione serviva principalmente a portare fuori dal perimetro della pubblica amministrazione e ad aumentare lo stipendio di Armani e dei suoi fedelissimi oltre la soglia dei 240 mila euro annui prevista per i manager statali.

Gli aumenti, in effetti, sono arrivati. Armani, che in vista del licenziamento si è fatto assumere dall’Anas dopo tre anni come direttore generale, è passato a quota 600 mila euro all’anno. Pochi spiccioli rispetto allo sfondamento miliardario di spesa che il governo M5S-Lega cerca di fare digerire all’Ue con risultati incerti e ai mercati finanziari con risultati disastrosi sullo spread.

Nel balletto dei decimi sul rapporto deficit-pil la questione Anas ha una sua rilevanza. Se si tiene per buono il lodo Tremonti, ossia il calcolo che l’ex ministro dell’Economia aveva fatto del peso dell’Anas sui conti pubblici, l’uscita dal perimetro della Pa varrebbe fra lo 0,2 e lo 0,3 per cento del rapporto deficit-pil mentre i più ottimisti erano arrivati a parlare addirittura dello 0,5 per cento.

Anche con la valutazione più prudente, in una situazione come quella del governo attuale due decimi di punto sono grasso che cola per le trattative con Bruxelles. Problema: l’uscita dell’Anas dalla pubblica amministrazione è stata già scontata? Le risposte sono ambigue. Si sa che Eurostat non ha ancora dato parere definitivo ma il Mef dovrebbe avere già portato a casa lo sgravio.

Se questo è vero, è impossibile che l’Anas torni sotto il Mef, come sarebbe piaciuto al neostatalista Toninelli, perché ci sarebbe stato un aumento immediato sul rapporto deficit-pil.

Da qui nasce la soluzione di portare l’Anas sotto il cappello di Fintecna. Qualcuno si stupirà di leggere il nome di questa finanziaria sopravvissuta alla Prima Repubblica e alla liquidazione dell’Iri che la controllava.

Ma i tempi dell’Iri erano i tempi delle partecipazioni statali. Oggi Fintecna è controllata al 100 per cento da Cdp che è all’89 per cento del Mef. Sia Cdp sia Fintecna sono fuori dalla pubblica amministrazione. Misteri della fede e della riforma del medesimo Giulio Tremonti del 2003. In questo modo, la ex subholding dell’Iri si troverebbe a controllare sia l’Anas sia Fincantieri il che ha fatto ipotizzare un’ennesima, fantasiosa fusione fra strade e navi.

Di certo il passaggio sotto Fintecna consentirebbe al nuovo management dell’Anas di prendere stipendi superiori al tetto dei 240 mila euro. Proprio come l’Anas voluta dal governo Gentiloni e dal suo ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio.

Sembrerebbe una di quelle «manovre meramente finanziarie» denunciate dal tweet di Toninelli del 7 novembre e finalizzate a «sprechi e stipendifici».

Ma non bisogna lasciarsi ingannare. Questo è il governo del cambiamento. Da Ferrovie a Fintecna, salvo la effe iniziale, cambia tutto.