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I Comuni e la burocrazia bloccano l’Italia

L’ultima beffa è toccata alla Capitale. Nella città dove le buche sono diventate proverbiali si è appena scoperta l’esistenza di 564 milioni di euro destinati a investimenti e manutenzione ordinaria nel 2017 e rimasti inutilizzati. Come è stato possibile? Semplice. Il Comune non ha ancora recepito la normativa che dal 2012 consente la programmazione triennale dei fondi, continuando a gestirli anno per anno creando così dei residui. Il resto l’ha fatto il caos nella gestione degli appalti: bandi sbagliati, commissioni di gare mai costituite e ricorsi dei perdenti sugli errori commessi dalla dirigenza. Che ora sarà avviata a corsi di formazione specifici sulla normativa di bilancio e sul nuovo Codice degli Appalti.

In questa storia c’è tutto ciò che serve per capire perché l’Italia delle opere pubbliche è bloccata. Molto altro è recuperabile spulciando la cartina qui accanto, tratta dal sito Sbloccacantieri.it dell’Ance (Associazione dei costruttori), dove per ogni Regione abbiamo scelto un’opera-simbolo dell’inefficienza. Cinque le cause principali della paralisi, ricostruite dall’Unità di verifica degli investimenti pubblici (Uver): le incertezze o le carenze finanziarie, le carenze progettuali, le lungaggini nel rilascio delle autorizzazioni, l’inadeguatezza dell’ente attuatore e i contenziosi in fase di aggiudicazione.

Nell’ultimo decennio si è rinunciato a spendere circa 60 miliardi in opere pubbliche a causa dell’austerità introdotta dai governi: si è ridotta la spesa centrale ma soprattutto quella degli enti locali, i veri big spender (oltre il 40% del mercato)insieme a FS e Anas, cui è stato imposto un rigido Patto di stabilità. Vincoli venuti meno però già nel 2016, proprio quando il portafoglio dello Stato si è riaperto per le infrastrutture (+72% per il 2016-2018). Malgrado ciò, il settore degli investimenti pubblici è calato del 5% anche l’anno scorso. Il bilancio delude a partire dall’utilizzo dei fondi strutturali europei: secondo dati Ue, a fine dicembre 2017, il livello di spesa nei programmi del Fesr (Fondo europeo di sviluppo regionale) era pari solo al 5% (1,6 miliardi spesi su 34 miliardi) mentre per i programmi del Fse (Fondo sociale europeo) era dell’8% (1,3 miliardi spesi su 17,7 miliardi).

Sotto accusa sono finiti i Comuni, la cui la spesa per investimenti (dati Ance) è calata nel 2016 del 13,5% e del 7,4% nel 2017, raggiungendo il livello più basso dall’inizio della crisi. Se nel 2016 il calo si spiega con il grosso risultato dell’anno precedente, quando si è completato il ciclo dei Fondi per la coesione sociale 2007-2013, cosa è successo l’anno scorso? Una risposta la fornisce l’Anci (associazione dei Comuni): l’incertezza nell’applicazione del Codice degli Appalti varato nel 2016 e pesantemente corretto appena l’anno dopo ha paralizzato l’azione dei dirigenti comunali timorosi di finire sotto accusa per danno erariale. E ancora: il decreto sui compensi dei commissari di gara è stato varato solo dieci giorni fa, nel frattempo si è faticato a comporre le commissioni. Ma non basta: esiste anche una difficoltà dei Comuni ad adeguarsi al nuovo sistema che ha fatto venir meno l’obbligo di conseguire avanzi annuali. Così i Comuni vanno in overshooting, come è successo a Roma, cioè spendono di meno di quanto potrebbero.

Né si può trascurare il parziale fallimento nel 2017 delle intese regionali che avrebbero dovuto consentire una redistribuzione degli spazi finanziari da parte delle Regioni verso gli enti locali: secondo il sito Sbloccacantieri.it, non sono state assegnate risorse per 497 milioni complessivi, malgrado l’opportunità sia stata eccezionalmente concessa due volte l’anno scorso. Tra le cause, il fatto che il riparto degli spazi, a inizio anno, non funziona perché le Regioni lo esercitano con una certa prudenza.

Fin qui la questione finanziaria. Esiste però anche un problema di tempi per la trasformazione delle risorse in opere. Ad ammetterlo è lo stesso allegato al Def (documento di programmazione economica e finanziaria), appena approvato dal Consiglio dei ministri. Il ministero guidato da Graziano Delrio ha effettuato un’analisi su venti infrastrutture di trasporto strategiche (533 milioni l’importo medio dei 57 lotti in cui si articolano le infrastrutture), facendo emergere che «i tempi medi di attuazione, considerando l’arco temporale che va dall’avvio della progettazione all’ultimazione dei lavori, inclusi i tempi del complesso iter autorizzativo, sono superiori a 15 anni». Il 66% (pari a 10 anni) è assorbito dalle fasi che precedono i lavori, caratterizzate dall’attuazione del complesso iter progettuale e autorizzativo e dall’affidamento dei contratti (fasi che assorbono una spesa nettamente inferiore a quella di esecuzione dei lavori). Il restante 34% è assorbito dall’esecuzione dei lavori (fase che ha il peso economico maggiore nel ciclo di vita del progetto).

Per velocizzare le procedure di spesa dei fondi pubblici, l’Ance propone di eliminare i passaggi al Cipe (Comitato interministeriale di programmazione economica) successivi all’approvazione, da parte dello stesso, del Documento pluriennale di pianificazione o di altri documenti di pianificazione o programmazione. Oggi il Cipe deve approvare invece ogni singolo progetto e tutte le sue modifiche. Ritardi derivano anche delle inutili duplicazioni di passaggi decisionali tra i ministeri. E tempi morti esistono nel passaggio da una fase all’altra dell’iter autorizzativo, quei «tempi di attraversamento» che, secondo l’Uver, nelle fasi della progettazione e dell’affidamento pesano per il 61% sulla durata di un’opera.

A allungare i tempi ci sono anche gli innumerevoli ricorsi che si moltiplicano facendo leva sulle incertezze normative e sull’inesperienza di chi amministra. È il caso della strada statale Maglie-Leuca (vedi cartina): sono passati circa 24 anni dalla prima ideazione e già 14 anni dall’approvazione del progetto preliminare di questo progetto da quasi 300 milioni di euro. Tra le cause del ritardo c’è il contenzioso tra le amministrazioni, oltre ai problemi di finanziamento dell’opera e a criticità in fase di gara. Oggi il percorso amministrativo per la realizzazione dell’opera è ritornato quasi al punto di partenza.

«Gli effetti delle politiche infrastrutturali messe in campo dal governo, si vedranno tra qualche anno — recita l’allegato al Def — sempre che si continui a sostenere e ad alimentare gli strumenti (finanziari e normativi) che sono stati messi in campo e si proceda lungo la strada tracciata». Il riferimento è al nuovo strumento triennale di programmazione delle risorse il cui elemento cardine è la valutazione ex ante dei fabbisogni infrastrutturali e delle singole opere. Ma anche il recupero di fondi per 97,6 miliardi per finanziare le opere prioritarie (ne servono ancora 35,4) e l’istituzione di un Fondo da 110 milioni, la progettazione di fattibilità delle infrastrutture e degli insediamenti prioritari, nonché la project review di alcune infrastrutture solo parzialmente finanziate. Certo, poi c’è il Codice degli Appalti che necessita di ulteriori modifiche. Un messaggio in bottiglia al governo che verrà.