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Un evergreen: i furti di biciclette

Esordire citando la pellicola-capolavoro di De Sica sarebbe troppo facile: meglio astenersi. Proveremo a parlare dei furti di biciclette su un piano un po’ più tecnico. Anche perché, va detto, il fenomeno appare non esattamente trascurabile: un’inchiesta condotta ad aprile 2017 da Altroconsumo segnala 380.000 bici rubate all’anno e 100 milioni di euro di danni (stime comunque approssimative, visto che in quattro casi su cinque il furto non viene denunciato). Non quantificabili, ma pur sempre reali, i danni psicologici: la bicicletta ha una sua “fisicità” che asseconda l’incedere del pedalatore ed è quindi, davvero, “compagna” di quest’ultimo; naturale il senso di sgomento nel non ritrovarla più.

Come arginare, allora, il problema? Ci sono risposte esperienziali, cioè delle concrete tecniche antifurto, nonché alcuni suggerimenti di più ampio respiro, con un tocco di sociologia.

Le prime indicano, quale sistema di bloccaggio migliore per la bici lasciata in strada, l’archetto a U (detto anche “U-lock”) con diametro di almeno 16 mm. Presenta, è vero, l’inconveniente di essere rigido e pesante, ma può essere forzato solo con strumenti molto grossi e rumorosi. Parallelamente, il ciclista dovrebbe far propri alcuni banali accorgimenti: bloccare sempre il telaio (mai solo la ruota!); scegliere vie/piazze assai frequentate, se possibile disseminate di telecamere di banche o uffici; personalizzare il proprio mezzo con parecchi adesivi o decorazioni e fotografarlo – grazie alla foto, all’occorrenza, potrà dimostrare di essere il proprietario. Ma con ciò, va detto, entriamo in un orizzonte più strategico: perché sembra abbastanza chiaro che la soluzione al problema dei furti si annida nel concetto di “tracciabilità”.

“Tracciabilità” significa possibilità di associare immediatamente il velocipede al suo proprietario: formidabile deterrente per i malintenzionati. Beninteso, non avrebbe senso pretendere di burocratizzare, con targhe e pubblici registri, il più snello e libero di tutti i mezzi di trasporto; basterebbe però cominciare ad abbinare, almeno per ogni bici nuova venduta, il numero di serie al documento d’identità dell’acquirente: una pratica virtuosa, che alcune grosse catene di articoli sportivi già adottano, ma che può dare i suoi frutti solo se generalizzata. Le soluzioni migliori sono quelle “di sistema”, al netto di pur lodevoli iniziative cittadine (la Polizia Locale di Milano, per esempio, ha istituito la “Squadra contrasto bici rubate” e creato una pagina Facebook con l’album fotografico delle bici recuperate, ma è penalizzata dall’avere una competenza circoscritta al territorio comunale).

Si diceva che la materia si presterebbe a cenni sociologici, anzi criminologici; ed è proprio così. Il nucleo del problema, infatti, è la propensione ad acquistare bici di provenienza illecita. Nessun moralismo, ci mancherebbe: una tale propensione (sempre più forte la tentazione di citare il film di De Sica) è comprensibilissima in chi è stato appena derubato. Ma resta il fatto che quando si trova in un mercatino, a soli 50 o 70 Euro, una bici in buone condizioni, la probabilità che si tratti di merce rubata assume i contorni della certezza; e l’acquisto invoglia i ladri a replicare le proprie prodezze. Il furto esiste perché esiste la ricettazione, non viceversa. Più nessuno ruberebbe, in un ipotetico mondo dei sogni in cui tutti comprassero solo oggetti tracciati e garantiti.

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