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Senza euro l’Italia corre verso il default

Uno dei tanti aspetti surreali del dibattito in corso sui vantaggi per l’Italia di uscire dall’euro è il tentativo di distinguere gli effetti di breve termine di una tale decisione, unanimemente riconosciuti come dolorosi, da quelli di lungo termine, se mai dovessero dispiegarsi i presunti benefici della maggiore flessibilità che una valuta nazionale consentirebbe. Come se nei sistemi complessi il punto di arrivo fosse indipendente dalle condizioni di partenza e dal percorso seguito.

Il processo con cui si disegnano le istituzioni politiche ed economiche di un paese non è indipendente dai traumi che ne caratterizzano l’evoluzione. E il default, che con ogni probabilità seguirebbe alla decisione di lasciare la moneta unica, rappresenta un trauma di primaria grandezza, secondo solo ad una guerra persa nei suoi effetti più profondi sul tessuto sociale e culturale di un paese.

L’euro ha consentito all’Italia di liberare spazi immensi nel proprio bilancio pubblico, prima con il processo di convergenza dei tassi d’interesse italiani al livello tedesco e poi con la politica monetaria ultra-espansiva che ha caratterizzato il mandato di Mario Draghi. Bisognerebbe ricordare a tale proposito che i tassi a zero sono possibili solo se un paese come la Germania presta la propria credibilità ad un paese come l’Italia. Sta a noi italiani, non all’Europa decidere come orientare il flusso di risorse reso disponibile dall’euro. Più che sulla moneta unica in sé, un paese maturo dovrebbe quindi domandarsi se è stato corretto usare il dividendo dell’euro per aumentare la spesa pubblica corrente, eliminare la tassa sulla prima casa o infittire la selva di bonus alla nostra manifattura incentivando investimenti dalla produttività così bassa da richiedere il sovvenzionamento statale.

Il crollo della spesa per interessi, reso possibile dalla adozione delle “stupide” regole di Maastricht e dalla credibilità anti- inflazionistica che la Bundesbank ha portato in dote alla Banca Centrale Europea, ha protetto per 20 anni l’Italia dal rischio di default e ha consentito al nostro paese di mantenere un sistema di welfare “occidentale” pur in presenza di un invecchiamento progressivo della popolazione.

Il fatto che la Germania abbia saputo sfruttare al meglio le opportunità poste dal mercato unico- a cui la creazione dell’euro ha dato slancio, abbassando drasticamente i costi impliciti imposti dalla volatilità dei cambi- mentre l’Italia nello stesso periodo sia arretrata, non ha nulla a che vedere con l’euro. A meno di non pensare che sia l’euro a determinare le modalità di selezione delle classi dirigenti, i tempi della burocrazia e della giustizia oppure, ancora, l’attitudine e gli incentivi degli imprenditori al reinvestimento degli utili e al dimensionamento aziendale.

Con buona pace dei tanti economisti che in questi giorni si dilettano da oltreoceano in disquisizioni teoriche sui vizi e le virtù della moneta unica, attribuire all’euro la causa della divergenza nella performance tra le due economie, italiana e tedesca, è non solo cattiva econometria ma anche un pessimo modo di impostare una seria politica di riforme, economiche e istituzionali. Al più l’eliminazione delle valute nazionali, così come l’abbattimento di altre barriere alla progressiva integrazione sociale ed economica tra paesi, può avere evidenziato i preesistenti punti di forza e di debolezza dei vari sistemi che compongono l’eurozona, accelerandone il processo di riposizionamento relativo. Punti di debolezza che peraltro erano ben visibili, se si ha memoria sufficiente per ricordare le svalutazioni e l’iperinflazione degli anni della lira.

Sarebbe stato meglio non entrare nell’euro? A questa domanda si può rispondere spostando la discussione su un piano astratto e rispolverando le classiche argomentazioni a favore o contro un regime di cambi fissi. Ma sarebbe un approccio sbagliato perché non tiene conto del contesto storico in cui una domanda così aveva senso porsela.

Immaginiamo quindi di essere alla fine degli anni ’80, poco prima della firma del Trattato di Maastricht. In quel periodo la reputazione del nostro paese presso i risparmiatori, domestici ed esteri, era così bassa che non esistevano titoli a scadenza lunga: il primo BTP decennale fu emesso nel 1991 con una cedola annua del 12,5%. La maggior parte del debito pubblico italiano era o a brevissima scadenza o indicizzato ai tassi BOT. Una durata media del debito così breve voleva dire trasformare in una roulette russa le aste dei titoli di Stato. Impossibile da gestire senza un ferreo controllo dei movimenti di capitale per evitare che i risparmiatori potessero rifugiarsi all’estero, sottraendosi a quella imposta patrimoniale occulta che va sotto il nome di inflazione e svalutazione.

Per i risparmiatori italiani si usava l’appellativo di “BOT-people”, perché ricordavano i profughi in fuga dal Vietnam che nessun porto straniero accettava e che erano costretti a vivere sui barconi in mare. Il clima di paura che i risparmiatori italiani hanno provato nelle giornate più buie della crisi dello spread era praticamente la regola in quegli anni. Il fatto è che nelle condizioni delle finanze pubbliche italiane la decisione di non entrare nell’euro (allora) o di uscirne (oggi) significa mandare in default il debito pubblico. Il giorno stesso in cui l’Italia dovesse annunciare l’uscita dall’euro si scatenerebbe la fuga dei capitali dal paese e la corsa ai bancomat, come abbiamo visto accadere in Grecia.

Se la Grecia è riuscita a sopravvivere nell’estate del 2015 è solo perché è rimasta tenacemente aggrappata all’Europa e la Bce ha potuto rifornirne di euro i bancomat. Se però l’Italia decidesse di abbandonare l’euro, per trattenere i capitali necessari a rifinanziare il debito in scadenza il Tesoro dovrebbe offrire tassi d’interesse così elevati da rendere prospetticamente insostenibile il servizio del debito pubblico. In alternativa, bisognerebbe chiudere ermeticamente le frontiere ai movimenti di capitale, rinominare il debito in lire e monetizzarlo. Isolarsi dal mondo per il tempo necessario a dimezzare il peso reale del debito attraverso il default o l’inflazione … facile a dirsi, ma impossibile a farsi soprattutto per un paese trasformatore come il nostro, (oggi) pienamente integrato nelle filiere produttive globalizzate.