È il risultato del più grande studio mai condotto sugli effetti dell’esposizione a lungo termine al particolato fine e all’ozono: 60 milioni di persone seguite per 12 anni.
L’inquinamento dell’aria può uccidere anche a basse concentrazioni. Ben più basse di quelle ammesse dalla legge italiana ed europea. È questo il risultato del più grande studio mai condotto sugli effetti dell’esposizione a lungo termine al particolato fine e all’ozono. Gli otto autori della ricerca, tutti dell’Università di Harvard fra cui le italiane Francesca Dominici e Antonella Zanobetti, si sono visti pubblicare la ricerca dalla più importante rivista di medicina del mondo, il New England Journal of Medicine.
La ragione di questo privilegio è semplice: appoggiandosi al poderoso centro di calcolo di Harvard, gli epidemiologi hanno potuto analizzare l’intera popolazione americana coperta dall’assicurazione Medicare, pari a più di 60 milioni di persone. Questa popolazione enorme è stata seguita dal 2000 al 2012, mettendo in correlazione ogni singola persona con le concentrazioni medie di PM2,5 e di ozono: sia i 22 milioni circa che nei dodici anni in esame sono morti, sia i circa 38 milioni ancora vivi al 31 dicembre 2012.
Un vero e proprio trionfo del Big Data, reso possibile dall’uso di sofisticati modelli basati su reti neurali che hanno consentito ai ricercatori di stimare la concentrazione dei due inquinanti per tutto il territorio americano con dettaglio di un chilometro quadrato. Gli americani coperti da Medicare sono stati quindi georeferenziati con il codice di avviamento postale delle loro residenze e ricondotti ciascuno alla sua dose quotidiana di inquinante.
Risultato: per ogni aumento di 10 microgrammi su metro cubo di particolato fine (PM 2,5) e di 10 parti per miliardo di ozono (O3), il rischio di morire per l’esposizione a lungo termine ai due inquinanti aumenta rispettivamente del 7,3% e dell’1,1%. Era già noto che le polveri sottili fossero più dannose dell’ozono. Alle prime infatti sono ascrivibili sia malattie respiratorie sia complicazioni cardiache e, dagli studi più recenti, anche neurologiche. L’ozono invece – tipico inquinante dell’estate che aumenta le sue concentrazioni con la maggiore attività solare, soprattutto nelle zone meno abitate fra cui parchi e campagne – provoca crisi asmatiche, insufficienza respiratoria e in generale ha un effetto irritato e infiammatorio sui polmoni.
Quello che non era affatto scontato, e che lo studio di Harvard ha chiarito, è che anche per chi vive in un ambiente relativamente meno inquinato, vale a dire sotto la soglia di sicurezza della legge statunitense, il rischio di morire aumenta del 13% per ogni 10 microgrammi/m3 in più. È interessante notare che la soglia cosiddetta di sicurezza della legge statunitense per il particolato fine è di 12 microgrammi/m3, ben più bassa di quella vigente in Italia e in Unione Europea di 20 microgrammi/m3. Ma c’è di più: almeno un terzo della popolazione italiana vive in ambienti con concentrazioni di polveri sopra questa soglie di legge.
Si tratta ovviamente di rischi bassi a livello individuale, ma tutt’altro che trascurabili in termini di sanità pubblica. E che diventano decisamente significativi per quelle persone già malate o più suscettibili all’inquinamento, perché anziane e fragili. Da notare inoltre che lo studio, coordinato dal noto epidemiologo ambientale Joel Schwartz, rivela che il rischio di morire di inquinamento aumenta considerevolmente per i più poveri e per i neri (dal 7 al 20%).
Il giornale statunitense ha voluto accompagnare lo studio con un commento tutt’altro che rassegnato. «L’inquinamento uccide ancora – scrive il New England Journal of Medicine -. E può provocare morte e malattia anche a concentrazioni ammesse per legge». L’invito – esplicitamente rivolto al presidente Trump – è di non abbassare la guardia sul controllo e la riduzione dell’inquinamento dell’aria, come invece sembra voler fare a giudicare dalla minaccia di ritiro degli Stati Uniti dagli impegni sul clima presi a Parigi, e dalla riduzione dei fondi alla principale agenzia ambientale americana, la Environmental Protection Agency.
L’invito della rivista statunitense dovrebbe valere ancora di più per l’Unione Europea e l’Italia, dove vigono ancora soglie di “sicurezza” quasi doppie rispetto a quelle statunitensi, ora rivelatesi non abbastanza protettive della salute pubblica.