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I progetti fantasma: nei Comuni mancano gli ingegneri e i fondi non arrivano

Nei pochi punti dove non è venuta giù, dopo l’alluvione e la frana del novembre scorso, la strada provinciale di Monesi di Mendatica, un piccolo paese dell’entroterra di Imperia, è tutta uno squarcio. Paese isolato, stazione sciistica chiusa, un centinaio di case inagibile, due distrutte. Lo scandalo è che è così da dieci mesi. Quei dirupi e quelle ferite aperte quasi un anno fa nell’asfalto dell’unica via di comunicazione della zona, sono la testimonianza visiva della paralisi decisionale che attanaglia la maggior parte dei nostri paesi e delle nostre città ad alto rischio idrogeologico. Due milioni di italiani vivono in zone a elevatissimo pericolo di alluvioni, un milione e duecentomila sotto la spada di Damocle delle frane. Lo sforzo del team ItaliaSicura che a Palazzo Chigi da circa quattro anni cerca di coordinare gli interventi di riassetto del nostro fragilissimo territorio, assomiglia sempre più a una corsa contro il tempo, in cui frane e alluvioni arrivano sempre prima dei cantieri che dovrebbero servire a prevenirle. Dietro questa paralisi decisionale c’è sempre più spesso l’incapacità o l’impossibilità dei Comuni di progettare gli interventi necessari. È ormai noto che solo un decimo delle 9.400 opere anti-dissesto indicate dalle Regioni (con un costo di 27 miliardi) ha dietro un progetto vero e proprio ed è quindi cantierabile. E in termini di miliardi solo il 7% delle opere va a cantiere. «Il mio Comune ha 2.300 abitanti e l’ufficio tecnico ha un solo dipendente», spiega Massimo Niero, sindaco di Cisano sul Neva, un altro dei paesi liguri investiti dall’alluvione del novembre scorso. «Di tecnici ce n’erano due, ma uno è andato in pensione e non l’ho potuto sostituire. Se quello che è rimasto si mette a fare i progetti, chi segue le pratiche edilizie, chi risponde alle richieste quotidiane dei cittadini?».

Tredici anni di blocco delle assunzioni, formazione al palo, personale ridotto spesso a un geometra a mezzo servizio. Questa è la situazione degli uffici tecnici di moltissimi piccoli Comuni italiani. Eppure quei sindaci si trovano spesso a dover progettare lavori enormi. Come ricordano i responsabili di ItaliaSicura, Erasmo D’Angelis e Mauro Grassi: «Quando nel 2012 furono dati 110 milioni per mettere in sicurezza il bacino dell’Arno, quelle opere non sono andate a gara per anni perché uno dei Comuni più coinvolti, Figline Val d’Arno, non aveva l’ufficio tecnico”. Anche quando i progetti arrivano, hanno ben poco di rigoroso, soprattutto al Sud: sono in gran parte titoli e basta, al massimo studi di fattibilità. E il guaio è che questo andazzo non riguarda solo i piccoli paesi. D’Angelis apre una cartellina con gli esiti delle istruttorie che riguardano le città metropolitane. Roma e provincia: 45 progetti fantasma, copertine e poco altro. Uno recita: messa in sicurezza del Canale Palocco in località Infernetto, 8,1 milioni. «Poi andiamo a vedere bene e scopriamo che la documentazione allegata si riferisce a un altro progetto». Variante a Monterotondo scalo con innesto sulla Salaria, 15 milioni, ma la documentazione non è stata neppure approvata. Padova, sistemazione e messa in sicurezza delle arginature del fiume Brenta, 70 milioni: «non risulta caricato nessun documento del progetto preliminare». Napoli, intervento contro il rischio frane sulla collina di Posillipo, riassetto dell’area di Soccavo e risanamento di Vallone S. Rocco, tre opere da 13,2 milioni: ma gli elaborati dei progetti risalgono a 14 anni fa. Inservibili. Catania, progetto da 49 milioni: altro non è che una semplice delibera comunale.

Intendiamoci, non è solo colpa dei Comuni se l’apertura dei cantieri slitta continuamente. I sindaci si trovano spesso davanti al più classico dei circoli viziosi, creato da una girandola di norme contraddittorie. Senza progetti esecutivi non si prendono i soldi dei lavori (dice il nuovo codice degli appalti), ma senza tutti i soldi dei lavori non si possono fare progetti. E chi ci prova rischia di essere condannato per danno erariale dalla Corte dei Conti. E allora? «E allora – dicono a ItaliaSicura – siamo intervenuti in due modi. Da una parte abbiamo dato ai presidenti delle Regioni, in qualità di commissari straordinari (e non più ai sindaci) i poteri di intervento contro il dissesto. Dall’altra abbiamo creato un fondo per la progettazione a disposizione delle stesse Regioni». Tutto risolto, dunque? Niente affatto. Quel fondo da 100 milioni che dovrebbe aiutare le Regioni a portare i progetti alla loro fase esecutiva aspetta da due anni e sette mesi di essere distribuito. In realtà, tutti i piani anti-dissesto del governo dal 2014 ad oggi (prima non esistevano) sono costretti a un folle tour de force politico. Dei quasi 10 miliardi stanziati entro il 2023, sono stati spesi finora 1,1 miliardi, di cui 115 milioni per i progetti più importanti delle aree metropolitane.

Ebbene, questi ultimi cominciano il loro iter nel novembre 2014 con la definizione degli interventi. A febbraio 2015 si approva il decreto sui criteri di selezione e il Cipe delibera l’assegnazione delle risorse. Il mese dopo la Corte dei Conti registra il decreto. Ma le Regioni chiedono e ottengono alcune modifiche. Così il provvedimento viene riapprovato a maggio e registrato di nuovo a giugno. Ora serve un secondo decreto: quello che individua gli interventi (ma non erano già definiti?). Viene approvato nel settembre 2015 e registrato dalla Corte il mese dopo. Quindi è la volta della Conferenza Stato-Regioni. Seguita dal ministero dell’Ambiente che sigla gli accordi di programma con le stesse Regioni. Ovviamente anche in questo caso serve la registrazione della Corte dei Conti che arriva a novembre. Tra un passaggio e l’altro, i soldi cominciano ad arrivare nel maggio 2016. E siamo solo al primo tempo: poi il gioco dell’oca del riassetto idrogeologico continua con i progetti da definire, le gare da fare, i cantieri da aprire. Sperando che le frattempo frane e alluvioni slittino anche loro.