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Gli acquisti della Bce, la ripresa e il nodo del rating italiano

Senza rendersene conto, l’Italia sta concedendo un match point proprio nel momento in cui la rimonta sarebbe possibile. Le dinamiche del debito naturalmente non sono una partita di tennis e il momento che può far vincere o perdere a volte arriva talmente in anticipo sul risultato finale che è difficile collegare le premesse alle conseguenze. Eppure l’economia italiana sembra esattamente in uno di quei passaggi.

La settimana scorsa la Banca centrale europea ha tenuto la sua conferenza annuale a Sintra, in Portogallo, in un clima irriconoscibile rispetto a dodici mesi fa. Nel 2016 la Brexit aveva appena prevalso nel referendum, la «sovranista» Marine Le Pen era in testa nei sondaggi in Francia e l’economia europea restava un passo dalla deflazione.

Quando prese la parola a Sintra un anno fa, Mario Draghi debuttò con una parola: «Tristezza». Quest’anno invece il presidente della Bce ha fatto un discorso nel quale i mercati hanno letto l’inizio della fine delle politiche straordinarie di sostegno all’economia. Ce n’è meno bisogno di prima.

A Sintra il sollievo in Draghi e nei suoi uomini si poteva vedere a occhio nudo, perché la zona euro sta completando il quarto anno di una crescita che inizia a sorprendere: Standard & Poor’s la stima al 2% per quest’anno, diffusa in Francia, in Portogallo e più timidamente l’Italia. È una ripresa targata Bce: quando una banca centrale porta i tassi a zero e inizia a creare moneta per comprare debito pubblico e privato, fino a far crescere il bilancio quasi al 40% delle dimensioni dell’economia, i frutti arrivano.

È già successo negli Stati Uniti, ora tocca all’Europa. E dopo la Federal Reserve americana, anche la Bce ora pensa a come ritirare con cautela le sue misure eccezionali. A Sintra, non era difficile cogliere alcuni capisaldi su come la Bce pensa di muoversi nei prossimi mesi. In primo luogo, la banca centrale non vuole lasciarsi deviare né dalle oscillazioni momentanee dei dati, né dai problemi specifici di certi Paesi in ritardo (Italia) o avanti nella ripresa (Germania).

Il secondo punto è che probabilmente la Bce annuncerà una riduzione delle quantità mensili di acquisti di titoli di Stato all’inizio di settembre, a valere da gennaio (Draghi potrebbe anticiparlo alla conferenza della Fed a Jackson Hole in agosto). Terzo: potrebbe venir meno l’attuale intenzione dell’Eurotower di tenere fermi i tassi d’interesse «ben oltre» il momento in cui smetterà di comprare titoli. In altri termini, tra un anno si discuterà del primo aumento dei tassi in Europa dal giugno 2011. Il tasso sui fondi depositati presso la banca centrale può risalire da meno 0,4% a zero verso metà 2018. Resta fuori giusto un dettaglio in questo quadro relativamente confortante: la terza economia d’Europa non è pronta, anche se non ha titolo per prendere in ostaggio l’intero convoglio al suo ritmo lento.

L’Italia cresce poco più di metà della media europea, è il solo Paese in cui il debito pubblico continua a salire e non sembra in grado di affrontare una frenata se dovesse arrivare una recessione dagli Stati Uniti nei prossimi due anni. Non è un caso se, dopo la crisi dell’euro, dalle agenzie Fitch e Dbrs sono arrivati di recente ancora due declassamenti della nota di affidabilità dei titoli di Stato di Roma e anche Moody’s dà «prospettive negative».

A titolo di confronto, il giudizio delle agenzie di rating sull’Irlanda è già stato ritoccato al rialzo dieci volte, sulla Spagna quattro e sul Portogallo tre. Non sono solo voti dal valore simbolico. Non lo sono perché nel 2005, sotto Trichet, la Bce ha fissato una regola senz’altro discutibile ma dagli effetti potenzialmente dirompenti per l’Italia nei prossimi anni: l’Eurotower fornisce liquidità alle banche accettando in garanzia da loro solo titoli di Stato con rating di livello «investimento»; se un Paese dell’area euro ha un rating «non-investment grade» («spazzatura») da S&P, Moody’s, Fitch e Dbrs, le quattro principali agenzie, di fatto è come se restasse senza banca centrale. Poco importa se sia in ripresa o il costo del debito sia basso. A quel punto le sue banche possono accedere alla liquidità in moneta nazionale, l’euro, solo se hanno titoli esteri o il governo accetta un programma sul modello Troika.

L’Italia non è a quel punto, ma non è neanche lontana: resta sopra di un solo gradino per S&P, di due per Moody’s e Fitch, di tre per Dbrs. Il Paese è dunque a otto declassamenti dal trovarsi spalle al muro, molto meno di quanto sembri: l’Italia otto declassamenti di seguito li ha già subiti nel giro di più di un anno a partire dal maggio 2011 e da allora ne ha incassati quattordici in tutto.

Né c’è bisogno di arrivare a quell’estremo, per subire i primi danni: la libertà di movimento del governo si erode sempre di più con l’avvicinarsi della soglia minima e il Paese finisce per mettere il suo futuro nelle mani di «comitati di esperti» dei rating tutt’altri che infallibili e tutt’altro che interessati al bene pubblico. Così l’Italia concede loro un match point. A meno che il sistema politico non apra gli occhi, e decida di fare di tutto per allontanare gli italiani dal ciglio di quel precipizio.