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Rocca: «Confindustria stimoli le aziende e non somigli alla politica»

Gianfelice Rocca, siamo alla vigilia della sua ultima assemblea da presidente delle 6 mila imprese di Assolombarda.

Come ha visto cambiare Milano e il Paese?
«Oggi Milano è in testa all’Italia. Ha un’immagine piena di charme. L’occupazione rispetto al 2008 è cresciuta. C’è un clima di fiducia. Dopo l’Expo temevo un calo di adrenalina; non c’è stato, ma ora bisogna trovare nuove sfide».

A cosa si riferisce?
«L’Expo è stato un campo magnetico che attirava tantissimi aghi: si capiva subito dov’era il Nord. La fondazione Prada finiva i lavori in tempo per l’Expo, l’Expo diventava il punto d’arrivo un po’ per tutto».

Il culmine è stato l’elezione a sindaco del commissario per l’Expo. E ora?
«Ora Sala deve puntare sulla città metropolitana come centro di sviluppo delle nuove economie. Nel raggio di 60 chilometri attorno a Milano c’è il 25% della manifattura e dell’export d’Italia. Ma i milanesi avvertono un senso di isolamento e di solitudine nell’affrontare il futuro; proprio mentre servirebbe una visione, per risolvere i problemi delle periferie e delle migrazioni».

Milano comunque sta meglio rispetto all’Italia, che continua a non crescere. Perché?
«Il nostro Paese è dentro un quadro globale che non si è ancora ripreso dalla crisi del moderno capitalismo, esplosa nel 2008, e dalla conseguente crisi delle leadership. La sensazione è che gli unici giocatori in campo siano le banche centrali. Ci si sente sudditi anziché cittadini. Proprio mentre si avverte la necessità di un nuovo ruolo dello Stato, che indirizzi, faciliti, catalizzi il lavoro dei privati».

Quanto pesa la corruzione?
«Pesa di più la paura della corruzione. Il tema dei temi è l’autonomia sfiduciata. Se tu reagisci a un pericolo con la burocratizzazione e il congelamento, sei morto. La ricostruzione della fiducia reciproca è fondamentale; perché la fiducia reciproca non è un fattore aggiunto, è un moltiplicatore dello sviluppo. La nostra autorappresentazione così negativa, invece, ci danneggia molto».

Lei è indagato dalla Procura di Milano per corruzione internazionale, nell’ambito dell’inchiesta su Petrobras: uno scandalo mondiale.
«Non ho mai ricevuto comunicazioni ufficiali. L’ho saputo dai giornali. Abbiamo predisposto per ora due inchieste interne che finora non hanno trovato riscontri. Parliamo di un gruppo da 450 imprese, 60 mila dipendenti di cui 7 mila in Italia, 20 miliardi di dollari di fatturato. Per noi la trasparenza è una priorità».

In Confindustria lei ha appoggiato Vacchi, battuto da Boccia. Come si sta muovendo il nuovo presidente?
«Il mondo imprenditoriale si può confrontare con la politica in due modi. Con una collaborazione tra forze che si somigliano. Oppure mettendo insieme sapori diversi per trovare una sintesi. Vacchi avrebbe scelto la seconda strada. Mi pare che Boccia abbia scelto la prima».

La sua Confindustria somiglia troppo alla politica?
«Non intendo essere polemico. Dico solo che il compito di Confindustria dovrebbe essere innanzitutto suscitare gli spiriti animali degli imprenditori. L’innovazione non cala dall’alto; sale dal basso».

Di Renzi che giudizio dà?
«È stato un motore importante di cambi di paradigma. Il Jobs act ha realizzato il concetto del superamento del posto fisso. Nella scuola ha tentato di ripristinare circuiti di responsabilità che si sono rotti al tempo del ’68. Prima gli istituti tecnici portavano il nome dei proprietari dei gruppi industriali, che li sovvenzionavano, e il preside disponeva di assegni per premiare gli insegnanti migliori. Poi si pensò di liberare la scuola dall’”asservimento” all’impresa. Il risultato è che oggi, rispetto alla Baviera o alla Catalogna, in Lombardia anche l’istruzione tecnica passa tutta dall’accademia e non dalle scuole che formano i “periti plus”, i nuovi tecnici».

Perché allora la popolarità del premier è calata tanto rispetto alle elezioni europee?
«Per le difficoltà nell’esecuzione del suo programma. Il processo è lento e pieno di contraddizioni. Tra incentivi e sgravi fiscali Renzi e Padoan hanno messo nell’economia circa 30 miliardi; ma i risultati ancora non si sono visti».

I Cinque Stelle sono un’alternativa credibile per il governo del Paese?
«Da quel che accade a livello locale, non credo. Nella vita si possono fare scommesse; ma un Paese che si affida alla fortuna corre qualche rischio. Detto questo, nel movimento ci sono energie che possono essere utili».

Lei ha sostenuto che l’Italia non cresce perché sbaglia ad allocare capitale e lavoro. Che cosa significa?
«Noi tardiamo moltissimo a impiegare il lavoro nelle aziende che crescono. Ma il mercato è volatile, richiede adeguamenti rapidi. È sbagliato spendere denaro pubblico per difendere il singolo posto di lavoro; meglio aiutare il lavoratore a trovare un altro posto. Stiamo investendo per proteggere il mondo di ieri, anziché per costruire il mondo di domani. La politica deve intervenire per spingere verso l’innovazione, non per difendere l’esistente».

Quali sono i settori su cui investire, secondo lei?
«La green economy. L’arte, il design, la creatività. E le scienze della vita, che ci consentiranno di invecchiare in buona salute. Milano deve diventare un hub della conoscenza. Il futuro è nei servizi più che nella materia, nell’esperienza più che nei prodotti. Questo non significa abbandonare il manifatturiero, anzi; significa salvarlo, puntando sulla ricerca e sull’accorpamento di aziende troppo piccole per farcela da sole».

Alle scienze della vita dovrebbe essere dedicata l’area che fu dell’Expo. Tra quanto vedremo qualcosa di concreto?
«Credo che dovremo attendere quattro o cinque anni. Ma il senso di direzione è chiaro: big data della medicina, intelligenza artificiale, da cui nascerà il dottore complementare. E le facoltà scientifiche della Statale. Vedo in prospettiva un grande fervore».