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Panama punta sul Grande Canale per dimenticare lo scandalo bancario

Il giorno in cui Panama proverà a rifarsi la reputazione è già fissato: 26 giugno 2016. Si inaugura il raddoppio del Canale: una specie di «big bang»per la geo-economia di larga parte del continente americano, con effetti globali. Basti pensare solo ai traffici legati al petrolio o agli scambi commerciali tra Cina, Giappone e il resto del mondo.

Il presidente Juan Carlos Varela non vuole sprecare l’occasione per uscire dall’ombra malevola del sospetto. I «Panama Papers» hanno svelato i meccanismi concreti di un sistema giuridico parallelo, fondato sulle società anonime confezionate dallo studio di avvocati «Mossack y Fonseca» e da altri, sui circuiti bancari e, probabilmente, su una corruzione pervasiva.

A quanto raccontano da Panama, Varela sta curando direttamente gli inviti da spedire ai Capi di stato e di governo. E si sta già concentrando sul discorso da pronunciare in diretta televisiva, parlando ai potenti della terra e ai 3 milioni e 800 mila concittadini che, dopo aver approvato il progetto del Grande Canale con un referendum nel 2006, si aspettano la ricaduta dei benefici.

Nei lavori c’è la mano degli italiani. La società Salini-Impregilo è la capofila di un consorzio internazionale che comprende gli spagnoli della Sacyr Vallehermoso, i belgi di Jean de Nul e la locale Constructora Urbana. L’opera è cominciata nell’agosto del 2009 e a fine maggio 2016 il consorzio consegnerà le chiavi del Terzo set di chiuse all’Autoridad del Canal de Panama. Il progetto si completa con un anno e quattro mesi di ritardo, sostanzialmente per la mancata puntualità dei pagamenti da parte dell’amministrazione panamense.

Il valore di partenza dell’appalto era pari a 3 miliardi e 356 milioni di euro: la quota parte dell’impresa italiana ammonta a un miliardo e 288 milioni. Il governo di Panama vi ha fatto fronte faticosamente anche grazie a prestiti consistenti accordati dagli istituti internazionali. Tra gli altri: 800 milioni di euro dalla Banca Giapponese per la Cooperazione internazionale e 500 milioni dalla Banca europea per gli investimenti.

E’ uno sforzo enorme considerata la scala di un Paese che può contare, giusto per avere un’idea, su un prodotto interno lordo di circa 40 miliardi di euro all’anno. Ma il ritorno atteso può cambiare la caratura di Panama: oggi il Canale frutta circa 2 miliardi di euro all’anno. Con il percorso aggiuntivo, le entrate saliranno quasi subito a 4-5 miliardi per poi assestarsi, nel giro di qualche anno, a quota 6-7 miliardi di euro. Sarebbe come immaginare una crescita del 5 per cento e poi del 10%, del 15% del pil all’anno: tassi di sviluppo alla cinese trapiantati in Centroamerica.

Il Nuovo Canale segue un tracciato in larga misura parallelo a quello esistente. Gli ingegneri hanno dovuto risolvere problemi molto complicati per consentire il passaggio delle grandi petroliere, delle enormi portacontainer, finora costrette a circumnavigare il continente. Il sistema delle chiuse in sequenza permette di innalzare il livello delle acque nella parte centrale dell’istmo, nel lago Gatun. Il fondale può superare i 15 metri: via libera e solo 120 minuti di tragitto per le grandi petroliere con un tonnellaggio triplo rispetto a quello delle imbarcazioni che oggi aspettano giorni prima di coprire gli 81 chilometri del Canale in 8-12 ore.

Non è ancora noto se il 26 giugno ad ascoltare Varela ci sarà anche Barack Obama. Il presidente americano visitò la storica chiusa di Miraflores proprio un anno fa, nel corso del Vertice delle Americhe. Gli Stati Uniti hanno costruito il Canale e sono ancora i garanti della sua sicurezza, come previsto in un Trattato che risale addirittura al 1901, anno del progetto, inaugurato poi nel 1914. Oggi, per l’amministrazione di Washington, Panama rimane, «papers» o non «papers», lo Stato-cerniera fondamentale per dare sostanza economica alla politica di apertura verso l’Oceano Pacifico e l’America Latina.