Condividi, , Google Plus, LinkedIn,

Stampa

Il debito e la crescita: quello che la demagogia non spiega

Finora, il governo non si è ancora rimangiato l’impegno di ridurre il rapporto debito-Pil a partire dal 2016. Un impegno che gli osservatori più gufi (o più lucidi) non hanno mai preso troppo sul serio, ma che da qualche giorno comincia ad essere messo in dubbio anche dalle autorità europee.

La ragione dello scetticismo europeo è presto detta. Nel 2016 il Pil dell’Italia crescerà poco più dell’1% (e anche questo non è dato per scontato), mentre i prezzi potrebbero restare sostanzialmente fermi. Nello scenario più pessimistico il Pil (reale) cresce più o meno dell’1% e i prezzi diminuiscono di qualche decimale, quindi il Pil nominale rischia di progredire di un modestissimo 0,7 o 0,8%.

Nello scenario più ottimistico il Pil cresce come prevede il governo (+1,2%) e l’inflazione torna in territorio positivo di qualche decimale, il che permette al Pil nominale di crescere intorno all’1,5 per cento. Può bastare per far scendere il rapporto debito-Pil? No, a meno che la velocità di crescita del volume del debito pubblico sia inferiore all’1,5 per cento. Ma il debito pubblico è cresciuto al ritmo del 2,5% nel 2015, e a quello dell’1,7% nei primi due mesi del 2016 (ultimi dati disponibili).

Difficile pensare che possa rallentare nel resto del 2016 in una misura sufficiente a compensare la lentezza con cui crescerà il Pil nominale. Ecco perché osservatori indipendenti e autorità europee non credono che nel 2016 il rapporto debito-Pil dell’Italia comincerà a diminuire.

Giunti a questo punto, vale forse la pena affrontare senza giri di parole la questione: è opportuno perseguire comunque, fin da ora, l’obiettivo di riduzione del debito?

A questa domanda il governo non può rispondere, perché nega che il problema esista. Non è difficile, tuttavia, indovinare che cosa risponderebbe quando, posto di fronte all’evidenza dei fatti, non fosse più in grado di negare il problema. La risposta, immagino, sarebbe quella che abbiamo ascoltato più volte in questi mesi e che suona più o meno così: “il debito non si batte con l’austerità, il debito si abbatte con la crescita”.

Questa risposta ha due lati, uno inquietante e l’altro seducente. Il lato inquietante è che ignora le conseguenze negative di un ulteriore aumento del rapporto debito-Pil, conseguenze aggravate dalla circostanza che tale ennesimo aumento infrangerebbe un impegno assunto e più volte solennemente ribadito dal governo italiano.

Una prima conseguenza, tanto ovvia quanto costantemente dimenticata, è di aumentare il già pesante fardello che pesa sulle generazioni future. Una seconda conseguenza è di aumentare il rischio cui l’Italia sarebbe esposta nel caso di una nuova crisi finanziaria. Una terza conseguenza è di aumentare il premio che gli investitori richiedono per detenere titoli di Stato italiani. Quest’ultimo effetto, che comporta un ulteriore onere per le finanze pubbliche, in realtà è già in atto: lo spread con i titoli tedeschi, che è stato di circa 116 punti base nel 2015, è in costante aumento da sette settimane, e in quella appena trascorsa ha toccato quota 129.

C’è anche il lato seducente, tuttavia, nella risposta governativa. È verissimo che la crescita è l’unica vera medicina che può abbattere il rapporto debito-Pil senza ammazzare il paziente (e il precedente positivo del Belgio incoraggia a battere quella strada). E tutti noi saremmo felicissimi di poter cominciare ad alleggerire la zavorra del debito senza sacrifici (salariali o patrimoniali), senza tagli alla spesa pubblica, senza aumenti di tasse. Ma che cosa ci impedisce di tornare a crescere?

A dar credito al racconto governativo, sembra che ad impedirci di crescere siano soprattutto le “stupide” regole europee. Troppo poca flessibilità, criteri cervellotici nel calcolo del cosiddetto output gap, mancata condivisione del rischio bancario, latitanza dei promessi investimenti europei (che fine ha fatto il piano Juncker?). Il cahier des doléances dell’Italia è lungo, e tutt’altro che ingiustificato. C’è solo un piccolo dettaglio: il ristagno dell’economia italiana dipende anche dai nodi irrisolti dell’Europa, nodi che frenano in particolare le economie dell’Eurozona, ma sfortunatamente per il nostro orgoglio nazionale non è l’inadeguatezza della costruzione europea la ragione principale delle nostre difficoltà.

Eppure i dati parlano chiaro. È vero che, fra le economie avanzate (Paesi Ocse), i Paesi dell’Eurozona crescono un po’ meno di quelli che ne sono fuori (+2,1% contro +2,5% nel 2015), ma il punto è che, all’interno dell’Eurozona, il gap fra il tasso di crescita dell’Italia e quello degli altri Paesi (0,8% contro 2,2%) è imbarazzante. È un gap che c’è sempre stato dall’inizio degli anni 90, quando la prima Repubblica fece posto alla seconda, ma non vi è alcun segno che esso sia oggi minore che ieri, a dispetto di tutte le riforme attuate fin qui.

Tanto per non stare sul generico, ricapitoliamo i dati: nell’ultimo anno l’Italia è cresciuta dello 0,8%, ma l’Irlanda è cresciuta del 7,8%, il Lussemburgo del 4,8%, la Spagna del 3,2%, l’Olanda del 2,0%, la Germania dell’1,6%, il Portogallo dell’1,5 per cento. Eppure sono tutti Paesi dell’Eurozona, anzi fanno parte degli 11 paesi del gruppetto originario, che adottò l’euro il 1° gennaio del 1999. Tre di questi Paesi (Irlanda, Spagna Portogallo) facevano parte dei Pigs, ma ora sembrano aver ritrovato la strada della crescita.