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Sul Brasile la maledizione delle materie prime (e della Cina)

La chiamano maledizione delle risorse, o anche «male olandese», perché la prima diagnosi riguardava i Paesi Bassi, che ne furono colpiti in seguito alla scoperta di Groningen, il giacimento di gas più prolifico in Europa. È questa la malattia che sta atterrando il Brasile, un tempo superstar tra gli emergenti e oggi marchiato come «spazzatura» da Standard & Poor’s: una malattia che esplode in tutta la sua virulenza con il crollo dei prezzi delle materie prime, ma che viene covata a lungo nei periodi di boom, quando la ricchezza generata dall’export di risorse naturali rafforza pericolosamente la valuta nazionale e provoca uno stato di ebbrezza che porta a trascurare lo sviluppo di altri settori e a gonfiare a dismisura la spesa pubblica. Anche la corruzione, altro disturbo cronico del Brasile, trova un terreno più fertile durante questi periodi di incubazione. Ma prima o poi, sempre e inevitabilmente, le comodities invertono la rotta.

Il Brasile è stato particolarmente sfortunato. Perché all’origine del ciclo negativo (così come del precedente super-ciclo) stavolta c’è la Cina, che negli ultimi anni era diventata il suo principale partner commerciale, scavalcando gli Stati Uniti. Brasilia era un partner naturale per Pechino, potendo soddisfare con facilità il suo voracissimo appetito di materie prime: l’export verso la Cina, che all’inizio dello scorso decennio valeva circa 2 miliardi di dollari l’anno, nel 2013 ha raggiunto un picco di oltre 43 miliardi, crescendo a un ritmo quattro volte superiore a quello delle esportazioni verso altri Paesi.

Il Paese sudamericano è il secondo fornitore mondiale di minerale di ferro, ingrediente per la produzione di acciaio, superato soltanto dall’Australia, che non a caso si trova anch’essa in difficoltà, dopo aver stretto un legame quasi simbiotico con la Cina. Non solo. Oltre ad essere ricco di miniere, il Brasile estrae oltre 2,5 milioni di barili al giorno di petrolio – più o meno come il Kuwait – e nel 2007 ha scoperto giacimenti sottomarini giganteschi, grazie ai quali è diventato uno dei produttori a maggior potenziale di crescita. Uno dei motivi principali per cui Shell punta ad acquisire Bg Group sono le partecipazioni di quest’ultima nei giacimenti in corso di sviluppo nel Paese sudamericano (dopo il taglio del rating, entrambe le società ieri hanno accusato flessioni in borsa).

Già da tempo, inoltre, il Brasile è una vera e propria potenza agricola: nel mondo non ha rivali nell’export di caffè – soprattutto della pregiata varietà arabica, quella che serve per fare l’espresso – e di zucchero, che ricava da sterminate piantagioni di canna. È?inoltre il maggior esportatore di succo d’arancia e contende agli Usa il primato nella produzione di soia. Infine, è uno dei principali fornitori globali di carne e di cellulosa, con cui si fabbrica la carta.

Di tutte le “sue” materie prime, solo quest’ultima non è crollata di prezzo. Minerale di ferro e petrolio in particolare sono più che dimezzati nell’ultimo anno, mentre i semi di soia e lo zucchero grezzo sono scesi di recente ai minimi dal 2009 e il caffè arabica proprio ieri è sceso a livelli che non toccava da un anno e mezzo, proprio per effetto del downgrading del Brasile: se il real continua a scendere, gli esportatori continueranno a compensare gonfiando i volumi di vendita (come già stanno facendo da mesi).

Rischia invece di diminuire – o quanto meno di non aumentare – il flusso di petrolio in arrivo dal Paese. Tassello importante della crisi brasiliana – che è anche in buona parte politica – è il maxi scandalo per corruzione che ha colpito Petrobras, la compagnia petrolifera di Stato, in cui sono rimasti coinvolti anche diversi esponenti del Partito dei lavoratori, quello della presidente Dilma Rousseff, che gode ormai di un tasso di popolarità di appena l’8 per cento.

Procurarsi finanziamenti diventerà ancora più difficile e costoso per Petrobras, che peraltro è la società più indebitata del mondo con un fardello di 140 miliardi di dollari. In difficoltà potrebbe trovarsi anche Vale, gigante mondiale del minerale di ferro, per ora non toccata da inchieste ma costretta a confrontarsi col danno e la beffa. Negli ultimi anni, proprio per rifornire meglio la Cina, battendo i concorrenti australiani, era arrivata addirittura a costruire una flotta di navi speciali, con una stazza senza precedenti, le Valemax.