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L’Italia è uno dei «mercati meno competitivi» al mondo

Assunzione di giovani: si sconsiglia l'Italia. È quanto emerge dal Labour Costs Index 2015 di Verisk Maplecroft, società internazionale di ricerca strategica e analisi dei rischi.

L'indagine classifica l'Italia come il paese “più rischioso” per il costo del lavoro tra 172 elencati nel ranking. In altre parole: il mercato occupazionale meno competitivo di Europa e del mondo, in un incrocio di ostacoli burocratici e scarsi standard di produttività. Quanto basta a rendere la Penisola «una tra le location più costose per l'assunzione di nuovi lavoratori. Come risultato il tasso di disoccupazione è molto elevato, soprattutto tra i giovani».

L'indagine stima la competitività del costo di lavoro secondo la valutazione combinata di costi salariali, rapporto tra stipendio e produttività e oneri vari per le aziende che assumono. La top 10 dei paesi «meno attraenti» è dominata dall'Europa: prima l'Italia, appunto, seguita da Francia (2a), Belgio (3o), Spagna (4a), Finlandia (5a), Slovenia (6a), Lussemburgo (7o), Austria (8o), Islanda (9a) e Grecia (10a). Da un lato non è un caso che quasi tutti i mercati «più rischiosi» per costo del lavoro rientrino nell'area Ocse o, comunque, tra le economie più sviluppate: maggiori diritti per i lavoratori equivalgono salari minimi più elevati e forme di previdenza sconosciute in buona parte dei paesi sotto la lente del ranking.

Dall'altro, il record italiano è scandito da fattori che non riguardano solo l'abc delle tutele individuali. Il nostro paese registra contributi previdenziali tra i più elevati al mondo, il settimo valore su scala mondiale. Ma soprattutto una delle performance meno brillanti su scala Ocse per «minimum wage to value added per worker», il rapporto tra salario minimo e il valore aggiunto generato dai singoli lavoratori. La media italiana compete con quelle di Bolivia e Yemen e rappresenta uno degli handicap più vistosi per gli investitori internazionali interessati al business nella Penisola. «Quest'ultimo dato è a tutti gli effetti una misura della produttività e indica che i datori di alvoro possono aspettarsi un output maggiore in cambio di salari alti negli altri mercati» spiega al Sole 24 Ore Charles van Caloen, senior analyst di Verisk Maplecroft.
 
Se si guarda all'estremo opposto, sono gli stessi autori della ricerca a sottolineare che il Labour Costs Index non è una parametro dei «migliori posti per lavorare ma una classifica dei costi (nominali) per l'assunzione di lavoratori. Paesi come Cambogia (169esima).

Bangladesh (170) e Myanmar (171) sono competitivi se si parla di spese dirette, fuori classifica per tutto il resto. È la stessa Verisk Maplecroft a indicarli come zone «di estremo rischio» su capisaldi come sicurezza, condizioni di lavoro e sfruttamento della manodopera minorile: stipendi mensili da meno di 100 dollari Usa (in Cina sono 450) e coperture vicine allo zero.

Dovrebbe essere chiaro, spiega van Caloen, che «ci sono una serie di possibili costi finanziari, legali associati con la ricerca di forza lavoro da paesi come Cambogia e Bangladesh. Per questo raccomandiamo di integrare questo indice con altri ranking e analisi del rischio che misurino fattori fondamentali come l'efficacia della regolamentazione e il rischio di concorso nella violazione di fattori umani».