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L’Ente proprietario della strada tra incudine e martello

E’ fuor di dubbio: l’area della responsabilità civile degli enti proprietari di strade, per danni (genericamente) riconducibili alla cattiva manutenzione, si sta allargando. Tale allargamento costituisce una linea di sviluppo del sistema giuridico degli ultimi anni, se non decenni: sistema che evolve, e non è un mistero per nessuno, anche seguendo mutamenti nell’orientamento di tribunali e operatori, non solo per espliciti interventi di riforma del legislatore; soprattutto in una materia quale il risarcimento danni, dove la giurisprudenza riveste un ruolo preponderante.

Rientra, poi, nel campo dei tecnicismi veri e propri stabilire se il suindicato fenomeno dipenda, in ultima analisi, da un ampliamento del concetto di “insidia stradale” o da una maggiore propensione a riconoscere gli enti in questione quali “custodi” di quella particolarissima res che è l’infrastruttura viaria. Ma quello che conta è, appunto, l’esito complessivo: avviene, in misura maggiore rispetto al passato, che le amministrazioni siano chiamate a rifondere i danni patiti dagli utenti della strada. Intendiamoci: sul piano della giustizia teorica, ciò è un bene.

Tuttavia, al lato pratico, quando si tratta di fare i conti con i reali margini d’azione della gestione del bene pubblico, il quadro appare molto meno lineare; ed è descritto, anche da parte di osservatori senz’altro “super partes” come l’ASAPS (Associazione Sostenitori e Amici della Polizia Stradale), in termini di circolo vizioso.

Da un lato, infatti, gli effetti della carenza di fondi destinati agli enti proprietari delle strade si manifestano con una minore capacità manutentiva delle stesse; al tempo stesso, però, il notevole contenzioso generato da quei sinistri spiegabili (anche) per motivi di cattiva manutenzione determina nuovi costi per gli enti stessi e, in sostanza, per la collettività.
Ma avere, contemporaneamente, strade in cattivo stato e grossi esborsi di risorse pubbliche è quanto di più lontano ci sia dall’idea di ottimizzazione delle scelte politico-amministrative di settore.

In tale contesto, la recentissima ordinanza 1896/15 della VI Sezione della Corte di Cassazione (3 febbraio 2015) mette alcuni opportuni “paletti”, affermando che spetta comunque al danneggiato provare in giudizio il nesso causale tra il danno lamentato e lo specifico elemento infrastrutturale, o di arredo stradale, che si assume essere pericoloso (o ammalorato, insidioso, irregolare). Ha sbagliato quindi il giudice di merito, nel condannare il Comune a risarcire i danni fisici conseguenti a una caduta senza che fosse provata l’esatta dinamica dell’incidente (in particolare, senza appurare se all’origine di quest’ultimo ci fosse la mancanza di mattonelle, il dislivello del marciapiede o il palo del cartello posto alla fermata dell’autobus).

Un giurista, probabilmente, legge quest’ordinanza come una semplice, e ordinaria, riproposizione di principi civilistici fondamentali. Un ente proprietario di strade, pressato da preoccupazioni più concrete, la legge come un invito a non sparare sulla Croce Rossa.