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Infrastrutture, Studio Deloitte-Luiss: con la crisi persi 86 miliardi di Pil

I mancati investimenti negli anni di crisi sono costati al nostro paese 86 miliardi, circa cinque punti e mezzo di Pil. Lo dice l’analisi sugli investimenti in infrastrutture di trasporto, presentata ieri a Roma ed elaborata dal Centro Arcelli per gli studi monetari e finanziari (Casmef) della Luiss insieme a Deloitte financial advisory.

Adesso, per colmare il ritardo che si è accumulato, servirebbe un impegno insostenibile per i bilanci dello Stato. Le misure allo studio, anche dal lato europeo, si muovono infatti su numeri decisamente più piccoli: l’effetto stimato sul Pil del piano Juncker, ad esempio, sarà di 16,2 miliardi in tre anni. Per risolvere il problema, un’alternativa sarebbe raccogliere più investimenti privati, anche stranieri.

Il paese, però, è ancora poco attrattivo. Allora, la strada per rimetterci in marcia passa soprattutto da una programmazione più attenta: analisi costi-benefici delle opere pubbliche, un’autorità indipendente che guidi le scelte del paese, lotta ai veti locali, anche tramite nuove forme di compensazione. E spese più attente: interventi mirati sui nodi deboli e manutenzioni sono spesso le modalità più efficaci per aumentare l’accessibilità delle infrastrutture.

La ricerca parte da un obiettivo: stimare l’impatto complessivo sul Pil degli investimenti in infrastrutture di trasporto in Italia. I risultati mostrano che «a partire dalla crisi finanziaria del 2008, l’Italia ha registrato un calo significativo di investimenti in infrastrutture di trasporto, che ha portato ad un investiment gap cumulato tra il 2008 e il 2013 pari a 62 miliardi di euro».

Ipotizzando l’effetto che questo denaro avrebbe potuto avere sul nostro Pil, rispetto a un andamento ottimale della spesa abbiamo perso 86 miliardi totali, cinque punti e mezzo ai valori del 2013. Adesso, rimettersi in marcia sarà molto complicato: secondo lo studio, per arrivare al livello medio di dotazione europeo dovremmo investire almeno 138 miliardi. Una cifra che è finanziariamente irrealizzabile.

Basta guardare agli effetti che potrebbe avere il piano Juncker, per capire quali sono gli ordini di grandezza sul tavolo. L’ipotesi è che l’Italia possa investire nello schema di garanzie europee poco meno di quattro miliardi all’anno, totalizzando 11,6 miliardi alla fine del triennio previsto. Questo si tradurrebbe in un impatto sul Pil di 16,2 miliardi di euro. Numeri troppo bassi, che portano a una conclusione: dovremmo attrarre più investimenti privati, anche dall’estero. Purtroppo, però, «l’Italia risulta essere, in generale, il paese con la minore attrattività degli investimenti in infrastrutture di trasporto per gli operatori privati».

Lo dice un’altra sezione della ricerca, elaborata attraverso questionari distribuiti a operatori del settore, sia in Italia che all’estero. La complessità del quadro regolatorio e il rischio di contenziosi pesano ancora. «Noi lavoriamo in tutto il mondo, ma in nessun paese ci è mai successo che un contratto fosse cancellato, come è accaduto con il Ponte sullo Stretto», ricorda Massimo Ferrari, General manager di Salini Impregilo.  Stefano Granati, Cfo di Anas allarga il discorso alla questione finanziaria: «Abbiamo ripetutamente proposto l’autonomia finanziaria di Anas. Oggi i ritardi dei contributi statali ci portano problemi continui. La trattativa con il Governo è aperta».

Ne viene fuori, allora, anche una radiografia dei problemi più pressanti sul lato delle infrastrutture: da noi c’è una grande urgenza di interventi sui nodi (le interconnessioni tra diverse modalità di trasporto) e sul trasporto pubblico locale, principalmente al Sud. Mentre le cose vanno meglio per aeroporti e autostrade. «Per noi, ad esempio, l’intermodalità è fondamentale – spiega il presidente di Sea, Pietro Modiano -. Avrei molte più possibilità di raccogliere passeggeri da Bologna a Malpensa se avessi l’Alta velocità». In questo quadro di risorse scarse, l’unica soluzione possibile è una programmazione più attenta, basata sull’analisi costi-benefici. «L’individuazione delle priorità spiega Luca Petroni, presidente di Deloitte financial advisory – dovrebbe attenersi ad una complessiva visione nazionale sulle necessità di investimenti infrastrutturali e deve essere coerente con la programmazione comunitaria».

Sul punto, la ricerca non indica le priorità, ma individua una ricetta: la costituzione di una strategic infrastructure unit, un’autorità che abbia il compito di guidare il settore nelle sue scelte, elaborando linee guida sulla fattibilità delle opere, esprimendosi sui singoli casi, preparando documenti di gara blindati e collaborando con gli enti locali per superare l’effetto “Nimby”. Senza dimenticare l’importanza che avrebbe la creazione di nuovi meccanismi di compensazione: bisognerebbe anche tirare la leva fiscale, ad esempio tramite la riduzione di tributi locali.