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Il nodo del Titolo V e il rischio di tornare ai conflitti Stato-Regioni

Le competenze paritarie Camera-Senato, il metodo per l’elezione del presidente della Repubblica e soprattutto il Titolo V, cioè la ripartizione delle potestà legislative tra Stato e Regioni. Sono questi i prossimi nodi da sciogliere nel complicato iter di approvazione della riforma costituzionale.

La precedente riforma del Titolo V aveva allargato moltissimo l'area di competenza legislativa delle Regioni e soprattutto di quella concorrente Stato-Regioni con il risultato estremamente negativo di un perenne conflitto tra i due livelli di governo (centrale e locale) davanti alla Corte costituzionale e un continuo impasse.

Adesso, prossimi ad affrontare l'esame dell’articolo 31 del Ddl Boschi corretto con un accentramento dei poteri, il leghista Roberto Calderoli e non solo, spingono per ridare fiato alle competenze regionali. Un errore non da poco. Fortunatamente, all’interno del Pd sembra però prevalere la linea del ritorno alla centralizzazione di alcune grandi materie (valga per tutte l’esempio delle reti infrastrutturali) e il definitivo superamento della legislazione concorrente.

Qualche varco potrebbe aprirsi sull’articolo 30 della riforma (che modifica il 116) con un rafforzamento del cosiddetto “federalismo differenziato”, in virtù del quale le regioni più virtuose possono chiedere più poteri. Un’istanza portata avanti con forza, durante le audizioni, da vari governatori anche del Pd, come Sergio Chiamparino. Tra le richieste della Lega (ma anche di Forza Italia) c’è poi quella di rafforzare le funzioni e le prerogative del Senato aumentando le materie nelle quali anche Palazzo Madama è chiamato ad esprimere un voto (oltre alla Camera del deputati).

Al momento il Senato esprime il suo voto su revisioni e leggi costituzionali, leggi elettorali degli organi territoriali, trattati internazionali. Ma il governo non pare intenzionato ad aprire a nuove modifiche su questo fronte.

Altro scoglio è costituito dalle norme per l’elezione del capo dello Stato, quelle all’articolo 21 del Ddl, che andranno verosimilmente al voto domani. Qui la faccenda si complica perché oltre a rappresentare argomento di scontro tra maggioranza e opposizione le modalità per l’elezione dell’inquilino del Colle dividono anche il Pd al suo interno. Il governo vorrebbe tornare al testo approvato in prima lettura del Senato che prevedeva la maggioranza assoluta degli aventi diritto dopo l’ottavo scrutinio.

Quorum che alla Camera è stato alzato nei tre quinti dei votanti dopo il settimo scrutinio (per evitare che il presidente della Repubblica, in presenza di una legge elettorale fortemente maggioritaria, sia eletto dall’unico partito vincente con i suoi 340 voti). Ora però il governo teme che questo sistema di elezione consegni alle opposizioni un diritto di veto molto forte, che va attenuato.

Ma la minoranza oppone strenua resistenza. e l’opposizione, che vorrebbe alzare ulteriormente il quorum, scalpita e denuncia la presenza di un emendamento del Pd a firma Cociancich che blinderebbe il testo.