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Appalti, c’è la stretta anticorruzione ma anche la spinta per tornare a correre

La prima sfida del nuovo codice degli appalti è voltare pagina, mandare in soffitta un modello di realizzazione (ma forse sarebbe più giusto dire di non-realizzazione) delle opere pubbliche che ha frenato l'Italia anziché aiutarla a correre. Un modello passato fondato sulla deroga sistematica alla legge che ha favorito la corruzione e sulla variante in corso d'opera che manda per aria tempi e costi. Così si sono allontanati i cittadini dall'unica cosa che può convincerli che "infrastruttura è bello": servizi più efficienti a valle del collaudo dell'opera. C'è bisogno anzitutto di rispiegare agli italiani che treni e metrò servono a portare milioni di passeggeri (come con l'Alta velocità), gli interventi di difesa del suolo limitano frane e alluvioni, nelle città possiamo avere scuole più sicure e meno emergenze rifiuti. Le opere devono essere utili e non basta cominciarle, bisogna finirle. Imprese, professionisti, stazioni appaltanti devono essere "premiate" se (e solo se) fanno bene il loro lavoro fino in fondo.

Alla base di quel vecchio modello ci sono aspetti cui la nuova legge prova a porre rimedio. Le aree critiche fondamentali sono: la marginalità (e la bassa qualità) del progetto; l'assenza di una regolazione nazionale credibile del settore con l'introduzione (fallimentare) del federalismo; una qualificazione formalistica di imprese e professionisti che finora non ha mai premiato i risultati; la presenza di una pubblica amministrazione dilagante e inefficiente nelle funzioni-chiave della programmazione e del controllo del processo di realizzazione dell'opera.

Partiamo dal progetto. Senza un buon progetto a base di gare e lavori qualunque mediazione al ribasso della qualità e al rialzo dei costi diventa facile e qualunque variante per motivi oscuri è diventata possibile. Senza un buon progetto che faccia da àncora non è possibile una nuova stagione di trasparenza perché non funzionano neanche gli "open data" se i "data" sono truccati in partenza o non esistono. Il testo varato dal Senato rivaluta il progetto esecutivo come base di gare e lavori, elimina il massimo ribasso, rilancia i concorsi (che significano qualità ma anche confronto e partecipazione), limita gli appalti integrati che sviliscono progetto e progettista, moralizza le commissioni aggiudicatrici (che insieme all'assegnazione dei collaudi sono stati un vero scandalo morale), introduce il débat public che rimette il progetto al centro della fase autorizzativa nei territori. Tutto risolto? È un bel passo avanti. Ma per dare all'Italia il parco di migliaia di progetti di buona qualità di cui ha bisogno per ripartire servono ancora tre cose fondamentali: eliminazione dell'incentivo del 2% per l'affidamento interno della progettazione ai dipendenti della Pa senza gara che resta il fattore di maggiore distorsione del mercato; creazione di un fondo di rotazione che permetta di finanziare la progettazione prima di avere il finanziamento completo dell'opera; rilancio dei concorsi di progettazione su scala urbana con agevolazioni ai comuni.

Il secondo aspetto critico da superare è l'assenza di una regolazione nazionale. Trenta anni fa ci potevamo permettere meno leggi e più stabili nel tempo perché le circolari del ministero dei Lavori pubblici facevano testo. L'attribuzione di poteri sempre più diffusi alle regioni e l'eccessivo ricorso alla magistratura amministrativa hanno via via prodotto un vuoto di potere regolatorio centrale che si è riflesso nella vita contorta delle opere e nel contenzioso crescente fra Pa e imprese: da qui origina il fenomeno tutto italiano di un settore che ha più avvocati che ingegneri.

Il nuovo codice affiderà all'Autorità guidata da Cantone ampi poteri di regolazione soft (non solo anticorruzione): bandi-tipo, qualificazione delle stazioni appaltanti in base ai risultati, qualificazione delle imprese con rating reputazionali e di legalità, criteri per ridurre le stazioni appaltanti, interpretazione delle norme e verifica della loro applicazione sul campo, potenziamento degli accordi pre-contenzioso. In questo modo servono meno leggi, il sistema torna ad avere un centro e si prosciuga buona parte dell'acqua in cui in questi anni il contenzioso è andato crescendo, perdendo di vista le opere. Con questa nuova regolazione la sfida è anche superare una qualificazione del tutto formalistica: premi a chi conclude le opere e penalità a chi non rispetta i contratti con l'introduzione – altra novità assoluta – di una qualificazione anche per le stazioni appaltanti che dovranno avere strutture adeguate (responsabili del procedimento, unità di programmazione e di controllo).

E questo discorso porta alla quarta – e forse più grave – distorsione del mercato: l'eccesso di presenza della pubblica amministrazione. Una Pa dilagante in mille rivoli e poco centrata sulle funzioni-chiave. La Pa deve progettare? No. Una buona Pa deve programmare seriamente e controllare gli appaltatori potenziando la figura del responsabile unico del procedimento. Intanto sono decisivi lo snellimento del codice e la riduzione dei documenti di gara per le imprese.

Questa rivoluzione avrà bisogno di tempo e costituisce un passo nella direzione giusta. Va dato atto al relatore, Stefano Esposito, di aver svolto un gran lavoro e a tutte le forze politiche di aver tenuto un atteggiamento responsabile. Magari fosse questa la politica italiana. Serviranno altre riforme ma per un giorno godiamoci questa soddisfazione.