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Grandi rischi e piccoli dissesti

Giovanni da Rios

Il maltempo che ha flagellato l’Italia durante l’ultimo inverno pone in evidenza la vulnerabilità di molte infrastrutture territoriali: esondazioni, allagamenti, rovina di argini fluviali, chiusure di strade e ferrovie, collassi di antiche mura, estesi movimenti di frana, ripetute interruzioni di linee elettriche, hanno allarmato e sconcertato non poco la pubblica opinione.

L’immagine del treno deragliato in Liguria ad Andora, rimasto in bilico sopra la scogliera con locomotore e carrozze, si è replicata per giorni e giorni nei telegiornali di mezza Europa, certamente quale sintesi di violente avversità meteorologiche, ma anche di insuccesso e incapacità gestionale del nostro Paese.

Alcuni mass media più diffusi non si risparmiano nell’indicare con toni populistici i grandi colpevoli del misfatto: gli Ingegneri, e più in generale i Tecnici, che non si sono accorti del pericolo incombente, che non hanno attuato alcun intervento preventivo, che non sono neppure capaci di riaprire subito i collegamenti.

Il fatto che si trattasse di una linea ultracentenaria ad unico binario, inserita faticosamente a mezza costa su di una ripida scarpata, non è bastato a ridimensionare l’evento nei suoi effettivi contenuti di un modesto franamento superficiale, a seguito di piogge eccezionali, non disgiunto con ogni probabilità da alcuni interventi edificatori di monte. Senza considerare il fatto che è in costruzione la nuova linea ferroviaria, spostata più a monte in galleria, la cui apertura (da tempo prevista come prossima…) dovrebbe destinare l’attuale percorso ad una miglior vita di semplice pista ciclabile.

E così un piccolo disastro diventa un grande rischio, interrompendo per mesi una delle due connessioni ferroviarie tra Italia e Francia.

Il distacco di qualche decina o centinaia di metri cubi di terra è una circostanza del tutto ininfluente nella visione globale del nostro orbe terracqueo; mancano le statistiche ma credo che si verifichino nel mondo decine e decine di eventi similari ogni giorno, in zone abitate e non. Eppure anche un piccolo dissesto è più che sufficiente ad azzerare temporaneamente le opere viarie approntate dall’uomo per i suoi fabbisogni di mobilità.

La difesa del suolo non può purtroppo essere così assoluta da evitare fenomeni localizzati di dissesto o disagio territoriale: la intrinseca fragilità anche dei più tecnologici sistemi di trasporto li espone a rischi interruttivi particolari e sostanzialmente ineliminabili a priori. L’atteggiamento della pubblica opinione oscilla in generale tra la colpevolizzazione della imperizia dei Tecnici e l’invocazione di una fatalità ineludibile.

In un Paese, come l’Italia, dove la Magistratura giudicante riesce a condannare a svariati anni di carcere un gruppo di Tecnici, sull’ipotesi di reato di non aver previsto con accuratezza i tempi e le conseguenze di un terremoto, non bisogna stupirsi se la Magistratura inquirente, ad ogni evento di crollo o dissesto, apra un fascicolo nella ricerca di qualche responsabile appartenente al consorzio degli umani.

Il sistema giuridico in Italia favorisce peraltro tali procedure in quanto è possibile risalire indietro negli anni per individuare presunte colpe senza prescrizione alcuna; i termini di prescrizione decorrono, in linea di diritto, soltanto dalla data del crollo o del dissesto, anche se verificatisi dopo decenni dal momento della progettazione. E non conta che il progetto dell’opera sia stato verificato e approvato da tutti gli Organi competenti: come nei reati di genocidio la colpa attribuibile al Progettista incombe virtualmente sino alla sua morte.

Ma a ben vedere la realtà presenta molte più sfaccettature. A ben vedere, anche con eccezionali avversità meteo, le principali infrastrutture viarie del Paese, dalle linee ad alta velocità alle più moderne autostrade, resistono agli eventi grazie ad una concezione tecnica più ricca e più attenta verso livelli assoluti di sicurezza.

Su buona parte dei 300.000 km di strade extraurbane e di almeno 5.000 km di linee ferroviarie  minori, segnate da un’anzianità costruttiva prossima al secolo, permane invece il retaggio di una scelta ingegneristica “povera”, di fatto condizionata a risparmiare ogni centimetro possibile nella larghezza di piattaforma corrente e sui manufatti, a ridurre le opere di sostegno e di consolidamento allo stretto indispensabile nel momento della costruzione, a limitare il più possibile gli interventi alla ristretta fascia di territorio occupata fisicamente dalle infrastrutture.

Lo stesso discorso valeva per i manufatti di attraversamento di fiumi e torrenti ritenuti secondari, dove spesso la previsione dei tempi di ritorno delle maggiori criticità meteo si limitavano a poche decine d’anni; per non parlare delle tombinature minori sovente ridotte ad assurdi piccoli diametri, oltretutto esposti a facili intasamenti. Tra le emergenze strutturali del territorio sono recentemente saliti al disonore della cronaca anche alcuni corsi d’acqua decisamente minori ma forieri anch’essi di grandi rischi ed estesi allagamenti.

Dai racconti familiari di mio nonno, Ingegnere per molti anni del Settore Costruzioni delle Ferrovie dello Stato nelle Alpi Venete, mi sono fatto un’idea della miseria con cui venivano concepite le opere di difesa della infrastruttura nei primi decenni del Novecento: già la semplice semina erbacea o arbustiva sulle scarpate di monte e di valle richiedeva una dettagliata relazione giustificativa, quasi fosse un lusso estraneo rispetto alle rotaie e alla massicciata.

Oggi la concezione delle infrastrutture di trasporto risulta molto cambiata verso più elevati standard di affidabilità relativa e assoluta, ma sono anche cambiate di molto le criticità insediative del territorio: purtroppo il nostro patrimonio viario è per buona parte di antico impianto e ben poco si è migliorato da allora, anche per la insufficienza cronica di una efficace manutenzione migliorativa. In un mondo ideale, se il territorio venisse meglio regolato, anche la ininterrotta fruizione di strade e ferrovie, maggiori e minori, ne beneficerebbe: ma lo scenario complessivo si presenta, a dir poco, ostile.

Secondo recentissimi dati solo il 4% degli interventi antidissesto finanziati nel 2009 con fondi speciali in Italia è stato portato a termine negli ultimi quattro anni. Si tratta di un piano per la tutela del territorio con stanziamento di 2,1 miliardi riguardante 1.675 interventi sparsi specialmente in Sicilia, Calabria, Campania, Puglia e Lombardia. Orbene, i lavori ad oggi conclusi ammontano a soli 80 milioni e sono 1.100 i cantieri ancora da avviare burocraticamente.

Tra i criteri di selezione circa la priorità degli interventi del 2009 sembra che l’attenzione alla integrità delle vie di comunicazione non sia molto presente, e ciò partendo dal presupposto che alla sicurezza e continuità del transito debbano, almeno i prima battuta, provvedere gli Enti proprietari di strade, autostrade e ferrovie.

Certamente una maggiore e più spiccata attenzione dei Gestori delle vie di comunicazione verso le condizioni al contorno può attenuare le conseguenze operative di eventi meteo particolarmente sfavorevoli, ma non si può pretendere che in un territorio compromesso le grandi e piccole infrastrutture viarie possano continuare a difendersi da sole.