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Una proposta per la smart mobility: rivedere il sistema delle multe?

È un grave errore confondere le multe stradali con gli altri pagamenti a beneficio dell’Ente pubblico. Se si dimentica che il fine delle sanzioni è punire, allo scopo di fare da deterrente ai comportamenti scorretti e potenzialmente nocivi, si rischia di compromettere l’idea stessa di sicurezza stradale. Il contributo di Carlo Sgandurra (responsabile della funzione commerciale di ANAS nell’ambito della Direzione Esercizio) fornisce una bella analisi di come è evoluto il concetto di "contravvenzione" e propone una via di uscita per "rimediare" ad una distorsione ormai fin troppo radicata nel nostro modo di vivere e… nelle pratiche contabili dei nostri enti locali. La strada per una smart mobility passa anche da qui.

Quello che ora presentiamo, approfittando della grande vetrina offerta da FORUM PA, è un tentativo di “riandare ai fondamentali”. Esso scaturisce dalla convinzione che, se si perdono di vista i “fondamentali”, è impossibile fare innovazione, è impensabile avere una strategia: si rimarrà, tutt’al più, entro una tattica di basso conio.
L’argomento è parecchio settoriale: parleremo delle “multe” da Codice della Strada (il nome corretto sarebbe: sanzioni amministrative pecuniarie). Settoriale, ma non per questo irrilevante: si tratta, anzi, di un tema più volte toccato, anche nel sito ForumPA (l’ultimo articolo è del marzo 2015, “Multe e contravvenzioni, quanto incassano i Comuni?”) E il valore strategico di fondo – quello, appunto, da non perdere mai di vista – è, o dovrebbe essere, qualcosa di “grosso” come la sicurezza stradale.

Il lettore vorrà perdonare l’impostazione prevalentemente giuridica delle pagine che seguono: non si poteva fare altrimenti perché la “sanzione” è, per eccellenza, creatura del diritto.

D’altra parte, pensando anche alla riforma del Codice della Strada, a quanto pare vicina, e alle connesse discussioni, non sarebbe inopportuna, da parte dei fruitori di FORUM PA – cittadini, amministratori e imprese – una vigile attenzione a che lo strumento sanzionatorio di settore rimanga entro i giusti binari, la giusta funzione, la giusta “filosofia”.

Che cosa sono, dunque, i 169 Euro che (di solito) deve pagare l’automobilista “pizzicato” dall’autovelox, o i gli 85 Euro comminati al camionista in caso di scorretta sistemazione del carico, o i 161 Euro dovuti da chi guida telefonando (senza viva voce o auricolare)?

Sono, di fatto, delle pene. Inflitte a chi ha commesso dei… “para-reati”. Ossia: illeciti storicamente e strutturalmente affini ai reati, benché trattati dal legislatore, e vissuti a livello sociale, in modo assai diverso da quelli. D’altronde non a caso il linguaggio di tutti i giorni, genericamente, parla di “multe” e “contravvenzioni”, utilizzando termini che hanno cittadinanza, prima di tutto, all’interno del Codice Penale.

Sanzione penale e sanzione amministrativa pecuniaria servono tutte e due allo stesso scopo, consistente nel “punire e basta”: finalità puramente afflittiva, in entrambi i casi. Le cosiddette “leggi di depenalizzazione”, che per motivi politici contingenti fanno tranquillamente transitare un illecito da una categoria all’altra, sono, esse stesse, una logica conferma di ciò. Identità funzionale, insomma. La somma di denaro da pagare indicata, sul verbale per divieto di sosta, dall’agente di polizia municipale funzionalmente – si ripete: funzionalmente; non giuridicamente né, tanto meno, eticamente – è uguale ai 21 anni di reclusione che può infliggermi una Corte d’Assise se pugnalo a morte qualcuno. Vengo punito per ciò che ho commesso, e ciò che ho commesso merita quella punizione: un’idea di giustizia “retributiva” radicata, nella nostra cultura, da millenni.

La sanzione serve a punire; e la punizione a sua volta – la cosa è nota, ma rammentarlo non nuoce – serve a dissuadere. Scopo di prevenzione, si dice anche. Il carico di negatività insito nella punizione dovrebbe far sì che il sanzionato stesso (prevenzione speciale) e quanti lo circondano (prevenzione generale) siano indotti a non replicare più quel comportamento.

Fatta questa premessa, entriamo nel vivo dell’analisi. Perché la sanzione, tutto sommato, “funziona”?

Le risposte potrebbero essere molte, e molto variegate, ma uno dei motivi principali, assolutamente centrale, è: essa funziona perché viene calibrata sul fatto illecito storicamente commesso. L’applicazione della sanzione non è mai casuale: c’è sempre un’Autorità (cioè un cervello umano) che effettua una valutazione di ciò che è avvenuto e quantifica, caso per caso, la sanzione da applicare in concreto (restando, beninteso, entro certi “paletti” posti dalla Legge a scopo di garanzia, rappresentati quasi sempre da un minimo e un massimo). In campo penale questa autorità è il Giudice, e la cosa non ha nemmeno bisogno di essere spiegata. Ma in campo amministrativo il discorso è identico: la fondamentale legge del 1981, n. 689, sulle sanzioni amministrative stabilisce che l’agente accertatore verbalizza la violazione, la contesta e quindi fa rapporto a un’Autorità superiore, o comunque diversa: sarà quest’ultima (a meno che il trasgressore non abbia già scelto di “pagare in misura ridotta” per chiudere subito il procedimento, ma questo, chiaramente, è un altro discorso) a decidere, in concreto, sulla sanzione da applicare, commisurandone l’entità. Commisurazione che avviene proprio con parametri inerenti la maggiore, o minore, “meritevolezza di punizione” insita nel fatto e nel soggetto: l’art. 11 della Legge 689/1981 – legge, si ripete, di cardinale importanza nella misura in cui « …attraverso la costruzione di una vera e propria ‘parte generale’ del diritto penale amministrativo offriva al legislatore un’alternativa stabile alla sanzione penale-criminale »– prevede, testualmente, che « nella determinazione dalla sanzione amministrativa pecuniaria fissata dalla legge tra un limite minimo e un limite massimo… si ha riguardo alla gravità della violazione, all’opera svolta dall’agente per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione, nonché alla personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche».

Qui, però, si innesta un’alterazione; foriera di distorsioni degli istituti. Esiste, invero, un settore di sanzioni amministrative che formalmente richiama la Legge del 1981, ma in realtà se ne discosta su questo tratto essenziale, caratterizzante. Si tratta, per l’appunto, delle sanzioni in materia di circolazione stradale (Codice della Strada). Sanzioni standardizzate, massificate, ormai automatizzate. Per le quali c’è un occhio umano che accerta e verbalizza – e nemmeno sempre: sappiamo tutti quanto sia diffuso il ricorso a modalità tecnologiche di accertamento da remoto – ma non c’è nessun cervello umano che valuta e quantifica il “carico punitivo”. E’ tutto predeterminato.

Il Codice della Strada prevede, sì, che un determinato comportamento sia soggetto alla sanzione pecuniaria del pagamento di una somma da € X (cosiddetto minimo edittale) a € Y (cosiddetto massimo edittale). Ma è il Codice stesso, non un’Autorità in carne ed ossa, a dirmi quanto devo versare ogniqualvolta un agente accerta, verbalizzandolo, che ho effettivamente realizzato quel comportamento: il 70% di X se mi attivo entro 5 giorni dalla contestazione, una somma pari a X se pago entro 60 giorni, la metà di Y se lascio scadere il sessantesimo giorno dal verbale. Posso fare ricorso, certo: ma questo è un elemento collaterale, non va al cuore del problema. Con il ricorso, mi lamento perché la pretesa punitiva è scorretta, o scorrettamente formulata: qualcuno esaminerà questa doglianza. Ma la pretesa punitiva, di per sé, è già tutta contenuta nell’accertamento della violazione (ossia, in pratica, in quel particolare documento chiamato verbale). Non viene “calibrata” da nessuno.

Possono esserci in materia di circolazione stradale, e in effetti ci sono, eccezioni o tipi di infrazione del tutto particolari, con una regolamentazione a parte. Ma, nella stragrande maggioranza dei casi, le (violazioni alle) norme di comportamento funzionano nella suddetta maniera, completamente standardizzata: un passaggio con il semaforo rosso “vale” sempre 163 € di minimo edittale, sia che venga commesso da un ciclista nullatenente in un vuoto paesino di campagna, sia che venga commesso da un top manager alla guida di un SUV in una trafficata arteria cittadina. Nessuno valuta la “gravità della violazione”, la “personalità del trasgressore” o le “condizioni economiche” del medesimo.

Da questo punto di vista, l’art. 203 comma 3 del Codice della Strada (« Qualora nei termini previsti non sia stato proposto ricorso e non sia avvenuto il pagamento in misura ridotta, il verbale… costituisce titolo esecutivo per una somma pari alla metà del massimo della sanzione amministrativa edittale ») funge da norma uguale e contraria rispetto al sopracitato art. 11 della Legge 689: vale a creare un sistema sanzionatorio alternativo, radicalmente diverso da quello generale (benché, si ripete, formalmente il Codice della Strada proclami la propria adesione alle disposizioni generali della Legge fondamentale sulle sanzioni amministrative).

Ricapitoliamo. Il nostro legislatore ha creato, da molto tempo, un sistema “punitivo-amministrativo” che fa da contraltare al campo penalistico. In tale sistema, l’agente di polizia, preposto a controllare la condotta dei privati, accerta ma non punisce: sarà un altro soggetto a punire. All’interno di tale cornice, però, è sorto, per un ambito di attività socialmente pervasivo come la circolazione stradale, un sottosistema strutturalmente diverso: l’agente di polizia stradale, infatti, accerta e punisce. E questa circostanza, in effetti, qualche serio problema lo pone. A maggior ragione se – cosa sempre più frequente – l’agente coincide, in buona sostanza, con un software, un’apparecchiatura, una telecamera.

Non si vogliono adoperare parole troppo grosse, ma ci sembra che in tal modo l’istituto della sanzione pecuniaria abbia subìto, nel Codice della Strada, una sorta di snaturamento. Aver eliminato, per quasi tutte le fattispecie, il “momento determinativo” (ossia, come mostrato, il momento in cui qualcuno, a mente fredda, quantifica la somma da pagare, calibrandola rispetto all’episodio nonché rispetto al trasgressore) ha prodotto la trasformazione della sanzione in qualcos’altro. Il che è immediatamente verificabile, in via empirica, nella percezione dell’uomo medio. La “multa stradale” che mi viene inflitta ha perduto ogni connotato di riprovevolezza. Non è più qualcosa che mi merito in risposta a un mio comportamento cosciente, volontario e nocivo per la collettività; è un evento della vita del tutto casuale, un esborso imprevisto ed eticamente indifferente, come quando mi tocca pagare l’idraulico se si rompe un lavandino in casa, o il fisioterapista se mi procuro una distorsione alla caviglia, o una nuova tassa se il Governo muta qualcosa nella sua politica fiscale. L’ultimo esempio proposto, d’altronde, pare davvero pertinente: avendo perso il suo stigma di rimproverabilità sociale, la “multa stradale” si è confusa con tutti gli altri pagamenti che devo fare alle Pubbliche Amministrazioni; è divenuta nel comune sentire, grosso modo, una forma di prelievo paratributario cui si guarda con un po’ di fastidio, ma come se fosse un fenomeno del tutto ordinario, di normale dinamica dei rapporti Ente pubblico-cittadino; tanto che nessuno più si stupisce se le Amministrazioni locali ci imbastiscono sopra bilanci previsionali.

Così facendo, però, finisce per essere pregiudicata la stessa funzione di prevenzione, generale e speciale, propria della pena amministrativa. Se si smarrisce il collegamento con un’idea, sia pur blanda, di “punizione”, l’assoggettamento a sanzione diviene estraneo rispetto alla sua matrice (la violazione di norme stabilite dal Codice della Strada): si porrà quale fattore di mera sfortuna/fortuna (quel tratto di strada in quel momento era, o non era, controllato), o di maggiore/minore conoscenza (si sa che, in una certa fascia oraria, le apparecchiature di rilevamento sono disattivate); ma non certo come deterrente rispetto alla tenuta condotte di guida scorrette e pericolose.

Esiste un modo per rimediare alla situazione finora raccontata, riacquistando alla sanzione stradale il suo senso originario, il suo orizzonte, se non punitivo, almeno etico?

Di sicuro, indietro non si torna. Se la situazione ha potuto evolversi fino a questo punto, è perché da decenni la circolazione stradale (o comunque la convivenza con veicoli motorizzati privati, necessitanti di un articolato corpus di regole a tutela dell’incolumità di tutti) ha assunto caratteristiche pervasive, massificate. Si tratta dell’attività che maggiormente permea la quotidianità, a ogni strato sociale. Tutti noi, anche da pedoni, siamo utenti della strada, e per diverse ore al giorno; quasi tutti siamo patentati e adoperiamo un autoveicolo. Sanzioni amministrative sono previste, per legge, in ogni campo della vita socio-economica; ma non c’è, né potrebbe esserci, alcun confronto di tipo quantitativo tra – da un lato – la materia contributiva, che interessa solo i datori di lavoro, o la polizia edilizia, che riguarda proprietari di immobili e imprese di costruzione, o la polizia veterinaria, che riguarda i possessori di animali, o la polizia sanitaria, funzionale alla corretta vendita di sostanze alimentari e bevande, o la polizia amministrativa, che non interessa se non chi vuole esercitare certi mestieri o aprire dei locali al pubblico, eccetera eccetera e – dal lato opposto – il settore della circolazione stradale il quale, conviene ribadirlo, ci coinvolge tutti, indistintamente, per buona parte della quotidianità.

Dicendo che “indietro non si torna”, intendiamo dire che sarebbe completamente irrealistico ipotizzare, nelle sanzioni pecuniarie da Codice della Strada, un ripristino di ciò che abbiamo chiamato il “momento determinativo”. Immaginiamo cosa avverrebbe se una qualche Autorità (es. la Prefettura) dovesse stabilire, di volta in volta e caso per caso, quale è la sanzione congrua per un divieto di sosta, scegliendo tra un minimo e un massimo di legge, sulla base di un fascicolo istruttorio predisposto dagli agenti accertatori e riguardante tanto le circostanze della violazione quanto la persona del trasgressore: sarebbe, nel giro di poche settimane, il caos e la paralisi completa degli uffici; mentre sappiamo bene che pure l’efficienza e l’economicità delle amministrazioni pubbliche rappresentano un valore (anzi: un valore supremo, di questi tempi). No, la soluzione non è e non può essere quella di un ritorno alla “purezza originaria” dell’istituto giuridico; mentre altre ipotesi più o meno creative genererebbero ulteriori problemi, ulteriori discussioni, ulteriori controversie. L’importo delle sanzioni pecuniarie, in materia di circolazione stradale, è (quasi sempre) predeterminato ed automatico; ed è opportuno che rimanga così, proprio per le caratteristiche intrinseche di tale materia. Però, forse, si potrebbe immaginare una via alternativa: recuperare, a valle, un senso di utilità sociale che, a causa della standardizzazione e (verrebbe da dire) della banalizzazione dei pagamenti, risulta ormai impercettibile a monte. Ci si potrebbe concentrare, invero, sulla destinazione dei proventi, ossia sull’impiego di quel vero e proprio fiume di denaro che corrisponde al versamento delle sanzioni amministrative pecuniarie da codice della strada: rendendo tale impiego immediatamente, ed anche “visivamente”, controllabile. Per ottenere questo, non basta una generica indicazione legislativa di “destinazione a scopi di sicurezza stradale”. Un’indicazione del genere, peraltro già presente nell’attuale legislazione, è pura astrazione, viste le mille sfaccettature del concetto di “sicurezza stradale”: il quale può comprendere, e di fatto comprende:

  • «studi, ricerche e propaganda ai fini della sicurezza stradale»;
  • «educazione stradale»;
  • «iniziative ed attività di promozione della sicurezza della circolazione»;
  • «studi, ricerche e propaganda sulla sicurezza del veicolo»;
  • «organizzazione dei corsi per conseguire il certificato di idoneità alla conduzione dei ciclomotori»;
  • «acquisto di automezzi, mezzi e attrezzature dei Corpi e dei servizi di polizia provinciale e polizia municipale»;
  • «svolgimento, da parte degli organi di polizia locale, nelle scuole di ogni ordine e grado, di corsi didattici finalizzati all’educazione stradale»;
  • «interventi a favore della mobilità ciclistica».

Serve invece, come dicevamo, la “visibilità” nell’impiego dei proventi, cioè una destinazione degli stessi che renda evidente a tutti – non solo agli addetti ai lavori – l’utilità collettiva derivante dal sottoporre a controllo, e sanzionare, determinati comportamenti (risultando ormai troppo attenuate, per le ragioni già esposte, le finalità di prevenzione generale e speciale).

Tale visibilità può aversi solo in connessione al teatro concreto, fisico, entro il quale la circolazione veicolare si svolge: l’infrastruttura stradale. Il suo stato effettivo è riscontrabile da chiunque, proprio perché aperta a chiunque. Un miglioramento, anche lieve, della segnaletica (orizzontale, verticale, luminosa…), o dell’arredo (barriere, cordoli, catadiottri…), o del livello di servizio (aree di sosta, aree di parcheggio), o finanche del tracciato (correzione di una curva pericolosa) non è né equivocabile né sindacabile: è un dato di fatto sotto gli occhi di tutti, un innalzamento oggettivo, ancorché circoscritto, dei livelli di qualità e sicurezza della mobilità terrestre. La medesima, immediata “oggettività”, invece, non è dato riscontrarla negli impieghi dei proventi contravvenzionali di cui al soprariportato elenco: impieghi non verificabili senza un’indagine sui bilanci dell’Ente, e comunque sfumati nei loro effetti sulla collettività, avulsi da una logica di vera concretezza, nonostante progettualità magari encomiabili e concepite sotto i migliori auspici.

Per concludere: in tutto il ramificato dibattito sulla sicurezza stradale, avrebbe un valore strategico – e forse anche “pedagogico” – il riposizionamento dell’infrastruttura viaria al centro dell’attenzione: dedicando alla stessa, senza passaggi intermedi, tutte le risorse discendenti dall’applicazione delle relative “multe”, da chiunque irrogate.

Al riguardo, è indispensabile che la nuova regolamentazione capovolga l’attuale criterio, destinando il 100% dei proventi contravvenzionali non (come adesso) all’Amministrazione di appartenenza dell’agente accertatore, ma all’Ente proprietario della strada su cui l’infrazione ha avuto luogo. Con il corollario, ovvio, di un utilizzo di tali proventi volto al miglioramento di piano viabile, arredi, pertinenze; e draconiani controlli in ordine a tale utilizzo.

Ecco, in definitiva, il “succo” di un’operazione votata alla smartness: non fare uscire dalla strada quell’esazione che nasce, e si giustifica, su strada. Avere la certezza che il pagamento di una “multa” stradale serve, per intero, a migliorare l’infrastruttura viaria potrebbe essere – assieme ad altri fattori, evidentemente – una buona base da cui partire per impostare la smart mobility del futuro. Con largo spazio alla tecnologia, al controllo da remoto, al dialogo veicolo-infrastruttura.